Nel 2007 un percorso di letture e coincidenze mi aveva spinto a seguire un’edizione del festival; la suggestività della città e dei versi, la forte impressione che ne era derivata, mi hanno ricondotto a Sarajevo nell’anno appena passato, consentendomi di assistere alla decima e probabilmente ultima serie degli incontri poetici. Amicizie, libri, foto e ricordi sono il bagaglio pesante che ho riportato indietro dai due viaggi. Tra le pagine di appunti del 2007, paragonavo la capitale bosniaca ad altre città poco prima visitate: a Torino, per la presenza del fiume e delle colline intorno; a Reggio Calabria, inaspettatamente, per la spianata del corso e le strette strade perpendicolari, in salita. Si trattava di note difficili da motivare, dovute al fatto che la conoscenza e l’appropriazione di un luogo passano spesso per me attraverso il confronto irrazionale. A settembre del 2011, allora, quando Sarajevo già mi sembrava più conosciuta, il paragone non è avvenuto con luoghi altrove, ma con essa stessa, la città attraverso il cambiamento o gli aspetti immutati, lungo lo scorrere dei quattro anni.
Cinque anni fa, i giorni del festival coincidevano con il Ramadan; in quello da poco trascorso – dal 23 al 25 settembre – periodo degli incontri di poesia, il Ramadan era già terminato, cosa che, almeno a un’impressione superficiale, rendeva la città più animata. In quest’ultimo viaggio, però, la prima percezione di differenza è stata di natura economica, non religiosa, ed è stata raccolta, da me e dagli altri viaggiatori diretti al festival, durante la lunga traversata notturna in pullman che, da Trieste alla Slovenia alla Croazia, nel passaggio dei confini tra controlli della Policija e sms degli operatori telefonici che davano il benvenuto, di volta in volta, nei diversi Paesi, ci ha finalmente condotto in Bosnia. In un’area di servizio di Zenica, città operaia e centro siderurgico sul fiume Bosna, abbiamo capito che qualcosa era cambiato. Alla domanda: «Euro?», la risposta del cassiere, «Ne», ci ha sorpreso e la sorpresa ci ha accompagnato nella capitale, quando al nostro arrivo in albergo siamo stati invitati a procurarci i marchi convertibili (KM) e quando al di fuori dei locali i cartelli erano chiari: «Ne primamo eure – We do not accept euro».
Come spiegatoci a cena da un ricercatore italiano residente a Sarajevo, da dicembre 2010 l’euro non è più accettato. «Perché?», gli abbiamo chiesto. «Perché, voi in Italia vi fareste pagare con una moneta straniera?». No, in effetti, e in effetti la sensazione di comodità provata in passato, quando con pochi centesimi di euro facevi colazione seduto in un bar della Baščaršija – la zona del mercato, il cuore del centro storico – nascondeva al fondo un misto di arroganza e colpevolezza. Una sorta di imbarazzo mi ha accompagnato anche questo settembre in una libreria della Ferhadija – l’arteria principale dell’area pedonale – quando, per l’acquisto di una guida a 15 KM, destreggiandomi male tra le monete e la lingua ho erroneamente chiesto al negoziante se avesse il resto di 1000 KM, pressappoco 500 euro. «One thousand?!», è intervenuto un giovane cliente bosniaco che si è trovato ad ascoltare e che parlava inglese. A equivoco chiarito, il mio imbarazzo, però, restava evidente, accresciuto dal fatto che fosse scambiato per paura: non avere paura – mi rassicurava il ragazzo – non siamo cattivi, qui la gente è buona.
«Qui la gente è buona»: mi è dispiaciuto che l’abbia detto, come se ce ne fosse bisogno. Piuttosto, c’è bisogno di ricordarsi che i luoghi evolvono e che non sempre i mutamenti possono essere di nostro gradimento. I bar con le poltroncine e le scritte “Pepsi” o “Coca-Cola” stridevano con l’immagine che conservavo di Sarajevo e gli ombrelloni della birra locale. Ma una città non può essere la sua cartolina, mi sono ammonita, e con la stessa filosofia ho superato la vista di una vetrina in cui Ivo Andrić era accerchiato da Stephen King e Dan Brown. D’altro canto, l’arrivo della cultura americana è spesso interpretata come coincidente con la rinascita economica e, se le magliette per i turisti qui ironicamente recitano: «There is no Hard Rock Cafe Sarajevo», l’apertura del primo McDonald’s, a luglio del 2010, è stato letto, invece, come il segno positivo di nuovi investimenti in città.
Lo spirito di Sarajevo, d’altra parte, appare immutato: accanto ai bar alla moda resistono i venditori ambulanti di verdure, merletti, spezie inanellate in lunghe collane; per strada le donne in minigonna e quelle in chador camminano fianco a fianco senza ombre di disagio; in un sabato mattina come tanti altri, sullo spiazzo della cattedrale cattolica può svolgersi con naturalezza una campagna per la contraccezione, mentre a poche centinaia di metri due giovani sposi percorrono, felicemente strombazzando, una via dalle insegne anni Settanta. Non un insieme di contraddizioni, ma un’armonia di diversità che, comunque tu sia, ti fanno sentire al tuo posto e ti restituiscono un’idea di libertà, di una città profondamente avanzata.
Le moschee, le sinagoghe, le chiese cattoliche e ortodosse distano tra loro così pochi passi attraverso il centro storico, che arrivati a Trg Oslobođenja-Alija Izetbegović, la piazza della Liberazione oggi intitolata all’ex-presidente della Bosnia-Erzegovina, appare quasi logico trovarsi al cospetto del “Simbolo monumentale del Multiculturalismo”, la scultura in bronzo dell’italiano Francesco Perilli: “l’uomo universale”, privo di particolari tratti somatici, cerca di congiungere otto meridiani nella sfera del globo terrestre, con l’aiuto delle colombe. «L’uomo multiculturale costruirà il mondo» è il sottotitolo originale nella nostra lingua, tradotto negli idiomi locali dei Paesi che finora hanno posato la statua: Canada, Cina, Sudafrica e Bosnia per l’appunto, con la mancanza, fra i cinque continenti, della sola Oceania
Nella piazza di Sarajevo l’uomo universale è perfettamente collocato, compagno degli uomini più o meno anziani che si sfidano a scacchi con pezzi giganti, sui riquadri bianco-neri delle mattonelle: ogni mossa ha un incitamento corale da parte degli astanti che fumano, guardano e commentano, partecipando a un gioco che dev’essere particolarmente amato in città, come dimostrano due sgabelli e un piccolo tavolo con scacchiera sempre pronti, per gli avventori in una stradina del centro. Da questo e altri segni, sembra che gli abitanti sappiano godersi la lentezza del tempo, indispensabile, per esempio, per far posare quanto serve un caffè turco, per poi gustarlo accompagnato da un dolce tradizionale. Con fretta, almeno in questo campo, tutta italiana, mi sono sentita allora un’aliena quando una mattina ho ordinato un espresso al bancone e al bancone l’ho bevuto d’un fiato, non capendo, lì per lì, perché me l’avessero sistemato in un vassoio: perché – l’ho intuito dallo sguardo stranito – avevano pensato di portarmelo a un tavolo, dando per scontato che avrei voluto sorseggiarlo con calma.
Qui, la lentezza, è quella che scorre anche col fiume, la Miljacka, le cui nasali e laterali nel nome conferiscono al suono un timbro d’indolenza, la Miljacka citata da Sarajlić nella poesia Sarajevo, quando riferendosi alla «noiosa, lunga pioggia» canta: «Noi la malediciamo, le bestemmiamo contro, e tuttavia mentre cade / fissiamo gli appuntamenti d’amore come fossimo nel cuore di maggio. / Noi la malediciamo, le bestemmiamo contro, sapendo che essa non potrà mai / far diventare la Miljacka né il Guadalquivir né la Senna. / E con ciò? Forse per questo ti amerò di meno / e ti farò soffrire meno nella sventura?».
Sul fiume o oltre il fiume lo sguardo va in cerca del Ponte Latino, attraverso il quale un pezzo della Storia, grande come la guerra che ne è derivata, è passato. Allo stesso modo gli occhi inseguono le “rose”, i solchi recenti delle granate, simbolicamente verniciati di rosso. Ma cercare la guerra o le sue tracce, questa è la mia convinzione, è morboso; così evito di ritrarla, come evito di fotografare le tante tombe di cui è disseminata la città: non è uno spettacolo, e lo sguardo dal vivo, il chiaro ricordo basteranno a servire da monito. Una sensazione, tra l’altro, mi dice che la gente del posto preferisce a questo modo.
A confermare le mie impressioni, sintetizzandole – i cambiamenti in atto verso un benessere standardizzato, la pigrizia del fiume, la necessità di non scavare oltre misura in una memoria dolorosa –, ecco che mi imbatto in alcuni versi di Giancarlo Cavallo dal poema Sarai Sarajevo: «Solamente perché restano sventrati grattacieli / nel centro moderno possiamo dire che la città / è ancora ferita mentre la vita oggi scorre / più veloce della Miljacka e nel rimarginare / rinnova e omologa vetrine case e alberghi / perché oggi siamo uguali liberi e globali / e dobbiamo fare in fretta a dimenticare / il pregiudizio antico del bene e del male».
A memoria imperitura resta, invece, la fiamma eterna, ricordo dei caduti della Seconda guerra mondiale. A pochi passi da essa, al civico 56 della Maršala Tita, il “Kamerni Teatar 55”, già punto di riferimento degli artisti durante i conflitti degli anni Novanta, ha ospitato anche nel 2011 gli “Incontri internazionali di poesia”. La mattina del 23 settembre, appena arrivati in città e in attesa delle stanze, abbiamo fatto un giro di perlustrazione al teatro: fermati per le scale da una signora, abbiamo cercato di spiegare la nostra presenza lì. «Ah, Kiko», ha riassunto la donna nel soprannome affettuoso che gli amici davano a Sarajlić, e in quel momento, anche a me, il poeta è sembrato più familiare. Una sensazione straniante come di lunga conoscenza, sospesa tra la realtà quotidiana e la trasfigurazione letteraria, ho provato anche poco più tardi, alla serata inaugurale del festival, quando mi sono ritrovata seduta alle spalle del generale Jovan Divjak, strenuo difensore di Sarajevo durante la guerra civile, e alla sinistra di Tamara, figlia di Sarajlić: può capitare spesso di incontrare personaggi noti, ma non con la stessa frequenza accade di incorrere in figure conosciute attraverso pagine di letteratura; guardavo prima l’uno poi l’altra e ripensavo a Sarajevo, mon amour, la lunga intervista di Florence La Bruyère a Divjak, e ai versi di Sarajlić sul generale medesimo in Ultimo tango a Sarajevo («Arriva anche Jovan Divjak. Dagli stivali si vede / che viene direttamente dalla prima linea. / Quando ti chiede un ballo sembri un po’ confusa. / Per la prima volta ballerai con un generale») e a quelli sulla figlia in Tamara («Tamara ancora non è nata / ancora non sa nulla di Beckett e di Ionesco / ma qui ci sono tutti i Durmitor che un giorno lei visiterà, ci sono tutte / le Venezie, tutte le Napoli, tutte le Lubjane del mondo»).
Spiegare l’atmosfera del festival non è semplice: “una grande famiglia”, “emozionante”, “qualcosa di magico” sono le espressioni affiorate più spesso alle labbra nei commenti con gli altri frequentatori. I nomi dei poeti intervenuti sono tanti e di grande spessore; oltre alle voci più volte da me ascoltate e amate (Jack Hirschman, Paul Polansky, Sinan Gudžević, Josip Osti), quest’ultimo anno le nuove folgorazioni mi sono derivate da Beat Brechbühl, Vojo Šindolić, Sotirios Pastakas e, sopra tutti, da Tony Harrison. Insieme si sono ascoltati i versi, si sono visti messaggi in video e film, si sono mangiati ćevapčići da “Željo”, comprati dolci da “Badem”; insieme abbiamo camminato lungo la Maršala Tita verso la tomba di Sarajlić al Cimitero del Leone e abbiamo percorso la ripida salita verso la tekija di Hadži Sinan, monastero derviscio e luogo di ambientazione del racconto di Andrić Morte nella tekija di Sinan, come mi ha insegnato un omonimo Sinan che tutto sa e sempre ti stupisce, il poeta Gudžević. Restano i ricordi, resta la commozione del saluto finale degli organizzatori Sergio Iagulli e Raffaella Marzano alla platea, forse l’ultimo dal palco di Sarajevo. Ma resta anche la promessa di un nuovo appuntamento, il 2 maggio del 2012 a Salerno, per commemorare, a dieci anni dalla scomparsa, ancora una volta Izet, con musica, poesia e convivi, così come avrebbe voluto.