La città romena di Sibiu è una specie di Bruges dell’Est, con elementi architettonici vecchi di secoli, ben conservati e coerenti, sparpagliati lungo un labirinto di strade pedonali ricoperte di ciottoli. Nel 2007, questa cittadina della Romania nord-occidentale (meglio nota come Transilvania) è stata rimessa a nuovo e successivamente le è stato conferito il titolo di “Capitale europea della Cultura” dall’Unione Europea.
Le città della Romania nord-occidentale e occidentale come Cluj, Oradea e Timi≈üoara vantano un patrimonio architettonico che spazia dal gotico al Bauhaus, con contributi molto originali anche da parte dell’Art Déco austriaca, la cosiddetta Secessione. Tuttavia, nella rurale Transilvania, l’occhio esperto può facilmente notare lo stile architettonico ereditato dai Sassoni di Transilvania (Siebenbürger Sachsen), una popolazione germanica originaria di varie zone della Germania, dei Paesi Bassi, del Lussemburgo e della Francia.
Con oltre cento villaggi caratterizzati da monumentali chiese fortificate in pietra, tegole fatte a mano, cortili racchiusi da alte mura e da enormi cancelli in legno scolpito, la rurale Transilvania è in grado di offrire scorci senza precedenti. La regione è sicuramente lontana dall’essere la Toscana o la Valle della Loira, ma paesi come Biertan, Viscri-Deutschweisskirch e MƒÉl√¢ncrav-Malkrong non sono solo gioielli architettonici per il turismo culturale, ma ai turisti ecologisti e agli appassionati di slow food offrono anche vedute mozzafiato, cibi artigianali e agricoltura biologica. L’area è tanto incantevole da aver spinto il Principe del Galles ad acquistare due antiche residenze Sassoni e a diventare un regolare visitatore della regione.
Il potenziale di questa regione di generare uno sviluppo rurale basato sul turismo, tuttavia, è stato colpito duramente dai risvolti sociologici dell’emigrazione dei rumeni verso l’Europa occidentale e dal disfacimento sia del governo locale che di quello centrale. Negli ultimi anni, solo lo status conferito dall’UNESCO – che protegge però solo sei dei 148 villaggi sassoni – e azioni di mecenatismo isolate hanno evitato la totale distruzione o la radicale trasformazione dell’architettura dei villaggi sassoni.
Dopo la Seconda guerra mondiale, trasferimenti di massa verso la Germania ordinati dal regime nazista, le deportazioni ordinate dall’Unione Sovietica e infine l’emigrazione volontaria sempre verso la Germania hanno ridotto la popolazione sassone da circa 1 milione nel 1938 ad approssimativamente 20mila nel 2002. Le etnie più povere, rumeni e rom, si trasferirono nelle residenze sassoni, ormai deserte, e a causa dei salari costantemente bassi durante il periodo di nazional-stalinismo della Romania (1948-1989), i nuovi abitanti lasciarono intatta la maggior parte di questi edifici.
Le cose sono però cambiate radicalmente con l’emigrazione di massa dalla Transilvania rurale, un processo iniziato alla fine degli anni ’90 a causa della disoccupazione e della povertà dell’agricoltura di sussistenza. Come conseguenza dell’emigrazione, per la prima volta nella storia sociale della Romania, i rumeni delle campagne sono passati in meno di un decennio dai livelli di consumo da sottoproletariato a quelli da classe media. Con i prezzi degli immobili nelle città della Transilvania schizzati a livelli prossimi a quelli dell’Europa occidentale verso la metà degli anni 2000 (in parte a causa dell’emigrazione stessa), la maggior parte degli immigrati rurali ha investito i propri risparmi nell’apportare migliorie alla propria casa o, nella maggioranza dei casi, nel ricostruirla.
Di conseguenza, migliori impianti di riscaldamento, impianti idraulici moderni e comunicazioni a distanza sono divenute per la prima volta comfort diffusi nella storia moderna di questi villaggi. Allo stesso tempo, il boom edilizio ha scatenato interessanti dinamiche sociali, nelle quali le famiglie di emigranti sono emerse come ceto sociale differenziato, marcando una distinzione culturale (ed economica) esplicitata soprattutto da abitazioni grandi e appariscenti.
Malgrado l’ascesa sociale di gran parte della popolazione lavorativa di queste regioni, l’emigrazione di massa ha rappresentato un disastro assoluto per il patrimonio architettonico sassone e per l’opportunità di queste comunità di capitalizzare il potenziale turistico dei loro villaggi “da cartolina”. In meno di un decennio, molte di queste abitazioni spaziose, costruite in pietra e con tetti di tegole durante diversi secoli e secondo i rigidi codici in uso presso le comunità sassoni, sono state trasformate in abitazioni “moderne” con infissi in plastica, tetti in amianto o lamiera, ringhiere in acciaio inossidabile e intonaci pacchiani, sulla base del repertorio dei muratori locali e dell’improvvisazione dei loro clienti.
In alcuni casi, la nuova ricchezza accumulata ha creato le prerogative per la costruzione di nuove chiese in stile pseudo-bizantino in cemento armato, la cui costruzione ha condannato alla rovina le chiese gotiche fortificate, antiche di almeno mezzo millennio.
Con questa nuova architettura vistosa, sia residenziale che ecclesiastica, è arrivata lentamente anche la fine delle tradizioni gastronomiche biologiche locali, che avrebbero potuto rappresentare un significativo valore aggiunto al portafoglio turistico della regione.
In piedi davanti alla sua casa di tre piani con sei camere da letto a Dumitra, Grigore Pop, 34 anni, autista di trasporti eccezionali a Girona (Spagna), spiega perché ha demolito l’antica dimora sassone che aveva ereditato dai suoi nonni: “Da queste parti la gente ha ricordi affettuosi dei Sassoni. Hanno costruito case solide e c’era molto spazio per me e per mia moglie. E so che in Spagna lo stato non ti lascia cambiare una sola finestra se non è una copia esatta di quella vecchia. Ma quella è la Spagna e questa è la Romania, e io mi vergognerei se dopo otto anni passati a sudare come una bestia in tutta Europa non fossi capace di costruire una casa nuova. La vecchia casa mi ricordava la povertà, la mancanza dell’acqua corrente ecc. Così l’ho buttata giù e ho costruito questa “nave”, che non mi piace neanche. Ma veramente, le sole case vecchie rimaste in questo appartengono agli ubriaconi del villaggio.” Alla domanda se stava considerando di ripristinare la vecchia dimora sassone, si è messo a ridere citando in un proverbio locale il triste destino degli eccentrici del paese.
Oltre a negare il potenziale turistico della Transilvania, il costo elevato dello sviluppo di queste “McCase” locali da parte di emigranti dai redditi relativamente bassi ha ridotto il potenziale delle rimesse di fungere da piccoli capitali in grado di dare impulso ad attività relative al turismo. Il costo medio di una “McCasa” standard varia dai 50mila agli 80mila euro. Per accumulare queste somme, la famiglia emigrante media deve risparmiare per almeno un decennio. Tutto ciò non lascia molto spazio alla formazione di quel circolo virtuoso che collega le rimesse degli emigranti con la cultura locale e lo sviluppo sostenibile che si può trovare in Italia, Spagna, Grecia e, più recentemente, in Turchia. Al contrario, la Transilvania sassone si è basata su una banale bolla immobiliare che ha avvantaggiato i commercianti di materiali da costruzione (per la maggior parte importati), i comitati di approvazione dei progetti e i lavoratori autonomi nel campo dell’edilizia.
Siccome la maggior parte dei lavoratori autonomi edili fa parte del mercato del lavoro in modo “informale” e che le nuove costruzioni sono in genere scarsamente tassate, il gettito fiscale dei comuni, già prossimi alla bancarotta, non è cambiato di molto in termini di proventi locali. L’unico modo per racimolare parte dei proventi locali da questi sviluppi è stato imporre l’IVA sui materiali da costruzione, un’imposta generalmente ben raccolta in Romania, ma che non ha nessun effetto diretto sull’economia politica del villaggio.
Sicuramente, le normative rumene in materia di costruzione e di ristrutturazione proibiscono cambiamenti sostanziali negli edifici elencati come da preservare. Mentre queste normative hanno cominciato a essere (timidamente) applicate nelle città solo negli ultimi anni, non hanno avuto nessun effetto nella Transilvania rurale. In parte, questa mancanza nell’applicazione delle norme è dovuta al fatto che gli elenchi del patrimonio sono in gran parte limitati a edifici pubblici e a chiese di paese. Allo stesso tempo, con poche eccezioni, i comuni rurali e le comunità locali non mostrano nessun interesse nella preservazione architettonica.
Al contrario, i comuni spesso hanno dato vita e hanno incentivato il caos usando i fondi per lo sviluppo rurale della UE per abbattere o per far andare in rovina i municipi e le scuole del XIX secolo, erigendo al loro posto strutture “moderne” costruite in modo economico. Sebbene ci sia la tentazione di spiegare questa prassi autodistruttiva con la semplice mancanza di capitale culturale nelle realtà locali, una spiegazione più valida può essere individuata nell’aumento delle opportunità di guadagnare voti e di speculare sugli affitti che si presenta ai sindaci locali grazie alla costruzione di nuovi edifici.
In un paese non lontano da Bistrita, uno degli insediamenti sassoni più antichi della Transilvania nord-orientale, la scuola statale in pietra di era sassone è stata abbandonata dal comune e nel suo cortile è stata costruita una nuova scuola, fatta con materiali economici pagati dal programma di sviluppo rurale della UE. Il sindaco locale ha la reputazione di essere corrotto, tuttavia nuovi edifici come questo hanno contribuito alla sua ripetuta rielezione.
Alexandru Braicu, originario del villaggio di Cepari, non ha remore nel parlare della situazione: “Il sindaco si è macchiato le mani con denaro sporco tantissime volte. Lo sanno tutti. Applica il 10% di tangenti su tutti i bandi. C’è da dire, però, che tutti rubano quando sono al potere, e almeno lui ci ha portato l’acqua corrente e ha costruito un nuovo municipio e nuove scuole con il denaro dell’Europa. A Nasaud [una cittadina vicina, NdR] il sindaco non ha costruito niente di nuovo, anche se Nasaud è una città e noi siamo solo un piccolo paese. Potremmo essere così stupidi da non rieleggere il sindaco ancora?”
Per quel che riguarda il ruolo del governo centrale, lo schema che emerge sostiene una combinazione di “post-regolamentazione” (ovvero condonare la costruzione dopo la sua costruzione) e di studiata indifferenza. Questa combinazione potrebbe sembrare particolarmente interessante, in quanto a differenza di altri paesi balcanici, la Romania ha una lunga tradizione di progettazione urbanistica, che risale al XIX secolo. Sfortunatamente, dopo il 1989 le commissioni urbanistiche sono diventate semplice opportunità per sfruttare gli affitti e per sviscerare la capacità legislativa dello stato.
Il fatto che questa tradizione sia semplicemente svanita in meno di un decennio e che abbia lasciato spazio al “turbo-urbanismo” che affligge indistintamente le città e i paesi della Romania testimonia l’eredità distruttiva del neoliberalismo applicato agli indigeni: la convivenza fra un’ideologia radicalizzata a favore della deregolamentazione e i rapporti mutevoli neo-patrimoniali all’interno dello stato.
Evidentemente, il ministro della Cultura ha finanziato la ristrutturazione di una manciata di chiese e ha proclamato a suon di tromba alcune strategie di sviluppo per le regioni sassoni. Tuttavia si può sicuramente presumere che la performance del governo di Bucarest nell’ottenere risultati sistematici al riguardo non sarà sicuramente meglio del suo ruolino di marcia nel lasciare che le “forze del mercato” spazzassero via la splendida eredità architettonica della vecchia Bucarest più che i famigerati bulldozer del regime di Nicolae Ceausescu.
http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/11795/1/48/
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