Le mani di Nenad Antič corrono veloci sulla pasta di formaggio appena salata. L’impasto, caldo e morbido, viene afferrato più volte e, con un gesto antico, rovesciato in un grosso contenitore di alluminio rotondo. Poche mosse decise e la forma di “pirotski kačkavalj” è pronta. Adesso verrà girata più volte nel corso della giornata, e poi trasportata in magazzino per l’invecchiamento. Pirot, Serbia sud-orientale. Nel laboratorio della “Mlekarska Škola”, l’istituto superiore per la lavorazione dei prodotti caseari, Nenad e i suoi colleghi iniziano a lavorare prima dell’alba. La “Mlekarska Škola” è insieme scuola e caseificio: qui tecnici esperti come Nenad insegnano ai giovani studenti a produrre jogurt, formaggio spalmabile ma soprattutto a conservare la tradizione secolare del “pirotski kačkavalj”. “Il ‘pirotski kačkavalj’ è molto più che un formaggio semiduro a pasta filata”, ci racconta nei corridoi animati della scuola il professor Radoslav Pejčić, appassionato difensore dell’eredità culturale e culinaria della sua città natale, e oggi referente del presidio Slow food di Pirot. “Per secoli è stato la ricchezza e il simbolo di questa regione. Nel secolo scorso, dal porto di Salonicco viaggiava fino ad Alessandria d’Egitto, da dove arrivava ai mercati di mezzo mondo.”
Piazzata strategicamente lungo il corso del fiume Nišava, sull’antica strada che porta a Istanbul via terra, (la “Via Militaris” di romana memoria), Pirot ha prosperato per secoli sull’unica vera ricchezza fornita dal suo aspro territorio: i rigogliosi pascoli sulle pendici dei Balcani occidentali (qui chiamati Stara Planina, la “vecchia montagna”), che permettono l’allevamento intensivo di ovini. Pecore vuol dire lana e latte, i prodotti che segnano la specializzazione economica della città, già al tempo della dominazione ottomana. Da una parte si tessono i preziosi “ćilimi”, tappeti famosi per straordinaria qualità, fantasia dei motivi e bellezza delle tinte, dall’altra si producono latticini, e soprattutto il “pirotski kačkavalj”, destinato a raggiungere la tavola del sultano. “ćilimi” e formaggio sono due facce della stessa medaglia: parlano di un’economia integrata, che sfruttava le risorse locali, riusciva a trovare sbocco sui mercati e portava risorse importanti in città. Con la nascita della Jugoslavia, dopo la prima guerra mondiale, la centralità della produzione casearia non viene meno. Il picco viene raggiunto negli anni ’50, quando a Pirot e dintorni si allevano più di 400mila pecore, quasi tutte di due razze autoctone, la “pirotska pramenka” e la “pirotska pramenka oplemenena”, selezionate nei secoli dagli allevatori locali.
Un video che racconta la storia di Pirot e del suo formaggio. Con le straordinarie fotografie del fotografo Ivo Danchev
Proprio in questi anni nasce la “Mlekarska Škola”, che attira studenti da Serbia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Croazia, tanto da essere definita una “Jugoslavia in piccolo”. Studiare a Pirot significa allora trovare lavoro con facilità: la scuola è rinomata e l’industria alimentare jugoslava lavora a pieno regime. “Il primo cambiamento sostanziale è avvenuto negli anni ’60, con l’industrializzazione voluta dal maresciallo Tito”, ci dice il professor Andrija Hodžić, tornato a insegnare nella “Mlekarska Škola” dopo aver lavorato per alcuni anni nell’industria alimentare a Belgrado. “Il lavoro si è spostato tutto o quasi nelle fabbriche e molti paesi in montagna hanno cominciato a spopolarsi”. L’allevamento e la produzione del formaggio restano però vitali. Nella Jugoslavia dell’economia autogestita, gli allevatori continuano ad essere privati, mentre tutto il latte della regione viene acquistato dalla “Mlekara Pirot”, grande caseificio pubblico che piazza il “kačkavalj” sui mercati nazionale e internazionale, verso destinazioni lontane come Israele e gli Stati Uniti. Inizia poi in quegli anni l’esportazione massiccia di agnelli, destinati soprattutto al mercato italiano. Il sistema funziona fino alle sanguinose guerre che, negli anni ’90, segnano la fine della Jugoslavia. Pirot, non lontano dal confine bulgaro, è lontana dai fronti di guerra, ma il crollo del paese ne mette al tappeto l’economia. Quasi tutte le fabbriche vengono privatizzate e poi liquidate. Oggi, su circa 67mila abitanti, i disoccupati sono più di 15mila. Tra le imprese che chiudono i battenti c’è anche la “Mlekara Pirot”, chiusa nel 1994.
“Da allora”, riprende il professor Pejčić di fronte ad un caffè turco, servito forte e bollente nella mensa affollata della “Mlekarska Škola”, “la produzione di formaggio a Pirot si è praticamente bloccata. Oggi, paradossalmente, con circa 4mila litri di latte lavorati al giorno, il nostro istituto è diventato il primo produttore in città.” Nelle attuali condizioni, preservare la tradizione del “pirotski kačkavalj” è un’impresa non facile. Il vero “kačkavalj”, come quello prodotto nella “Mlekarska Škola”, deve subire un invecchiamento in due fasi. La prima, di circa una settimana, “a caldo”, in un locale ventilato con temperatura costante di 22°. La seconda “a freddo”, che va dai tre ai sei mesi. Tutto questo, naturalmente, rende il prodotto finale più costoso. “La maggior parte dei produttori, oggi, fa invecchiare il ‘kačkavalj’ per non più di 24-48 ore” prosegue Pejčić. “Sul mercato serbo, dove i consumatori sono stati impoveriti da crisi e disoccupazione, offrire a prezzi più bassi, anche a scapito della qualità, è un vantaggio strategico”. Anche i mercati esteri, un tempo sbocco naturale del prodotto, sono irraggiungibili o quasi. Appesantita dal recente passato, la Serbia fatica sulla strada di ammissione all’Unione europea, con conseguenze immediate sulle possibilità di esportazione. La difficoltà più grande, però, deriva dal tracollo dell’allevamento tradizionale. Delle 400mila pecore degli anni ’50, oggi nella municipalità di Pirot ne restano a malapena 18mila, tanto che anche nella “Mlekarska Škola” sono costretti a produrre soprattutto con latte vaccino, oppure utilizzando una mescola di latte ovino e vaccino. Basta allontanarsi di qualche chilometro dalla città ed inerpicarsi sulle strade belle e tortuose che portano alla base della “Stara Planina” per rendersi conto di quanto la fuga dalle montagne abbia minato quello che era il cuore stesso dell’economia della regione, la fonte da cui i produttori di “pirotski kačkavalj” traevano la loro preziosa materia prima.
Il villaggio di Rsovci, ad esempio, ha oggi un centinaio di abitanti, quasi tutti anziani. Negli anni ’50 erano mille. “Quando ero giovane, a Rsovci avevamo quasi 20mila pecore”, racconta non nascondendo una vena d’orgoglio Djordje Ćirić, 73 anni, che incontriamo poco fuori dal paese, mentre porta al pascolo un piccolo gregge. “Oggi ne sono rimaste qualche centinaio, piccoli greggi come il mio, di 30-40 capi”. Il paese, adagiato lungo le acque cristalline del fiume Visoćica, non ha perso il suo fascino. La maggior parte delle case, però, costruite non senza eleganza in pietra, fango ed travi di legno, sono ormai vuote. “Sono scappati tutti, a Pirot, a Niš, a Belgrado. Oppure all’estero”, ci dice Cura Jovanović, proprietaria di uno spartano, ma ospitale bed&breakfast all’ingresso del paese. “Vivere di allevamento è ormai quasi impossibile. Il latte viene consumato qui in paese. Al limite, il formaggio viene venduto a clienti affezionati, che salgono fin quassù per mangiare qualcosa di buono”. A Rsovci sono rimasti solo due giovani, Nebojša e Slavoljub. Nebojša, 19 anni appena compiuti, si è diplomato proprio alla “Mlekarska Škola”. “Mi piacerebbe restare qui, fare l’allevatore come mio padre, portare avanti la tradizione del ‘kačkavalj’. Ma è difficile. Qui ci sono due risorse, i prodotti dell’allevamento e la bellezza incontaminata delle nostre montagne. Se sfruttate, potrebbero far tornare la vita ai nostri paesi”. Nonostante l’età, Nebojsa ha le idee chiare. “Le istituzioni devono fare qualcosa, aiutarci, e in fretta. Altrimenti qui non resterà nessuno, anche io me ne andrò via. Il rischio è che spariscano non solo il ‘kačkavalj’, ma anche secoli di storia e tradizioni”. Il lavoro appassionato del professor Pejčić e dei ragazzi della “Mlekarska Škola” è un piccolo, ma importante passo perché questo non succeda.