Ebbene sì, ora si può anche dire: molti furono gli sguardi scettici. Li avvertivo nel rispondere a una domanda banale, spesso associata a considerazioni sul meteo, così come da copione estivo.
D: “Vai in ferie? Dove?”
R: “Sì, in Romania.”
E ora lo posso anche ammettere, in fondo ci ho provato un certo gusto nello stranire l’interlocutore che associa alle vacanze estive ben altre mete.
Tutto ciò premesso, si parte! Alle spalle un ferragosto bizzarro cui va il merito di aver mitigato il caldo africano, davanti l’incognita di un paese conosciuto ai più, sottoscritta compresa, per i violini tzigani, le badanti e le mani tese a chiedere offerte.
Le bizzarrie del ferragosto italiano si infrangono nel torrido clima di Bucarest. Lasciati i bagagli in albergo e fatta la conoscenza con Cristina, la guida locale che affiancherà Leonardo nel corso del tour, ci incamminiamo per raggiungere la Casa del Popolo lungo i viali dove si affacciano edifici voluti dal regime comunista e palazzine fin de siècle. Su queste ultime mi fisso: immagino lo splendore di questi quartieri all’inizio del secolo scorso, quando le palazzine erano integre nella loro bellezza, risparmiate dalle ingiurie del tempo, da parabole e condizionatori aggrappati ai balconi, ma la “lunga marcia” verso i luoghi del realismo socialista inghiotte i miei pensieri.
La “Casa del Popolo”, ora palazzo del Parlamento, si materializza quasi dal nulla, opprimente ed oppressa da un numero indefinito di finestre e facciate imponenti. Da lì a percepirsi come lillipuziani il passo è breve. All’entrata metal detector e targhette con numero identificativo fanno il resto.
I saloni e le scalinate si susseguono agghindate con tappeti, lampadari, stucchi e marmi. La giovane guida decanta decisa la provenienza autoctona dei materiali utilizzati, glissando sulle vicende che li hanno visti testimoni. Nessun cenno ai quartieri storici sacrificati e un unico veloce riferimento a Nicolae Ceau?escu. Il “Presidente” di quella che è stata la Romania socialista, si manifesta attraverso le sue fobie: enormi grate di aerazione al posto dell’aria condizionata percepita come potenziale veicolo di avvelenamento. Ma quando si arriva alla balconata affacciata sul Viale dell’Unificazione, la presenza di Ceau?escu irrompe come un fiume in piena. Da lì avrebbe dovuto imbonire un popolo ridotto allo stremo in un delirio autocelebrativo, ma le manie e le smanie di grandezza vennero interrotte dalla rivoluzione romena e quel balcone appare, per certi versi, come un monito.
La vista di Bucarest al tramonto, le premure di Cristina e la cena in un ristorante tipico alleggeriscono gli animi proiettandoci con entusiasmo nelle tappe successive del viaggio.
Bucarest è ancora insonnolita quando si parte per la Transilvania. Il paesaggio cambia in una distanza e in un tempo relativamente brevi. Lungo il tragitto chilometri e chilometri di case affacciate sulla strada principale in assenza di un vero e proprio agglomerato urbano. Costruzioni con orto e giardino, la cui struttura si adegua man mano al solido impianto delle case sassoni, con molte varianti sul tema finestre, tetto e colori e un differente stato di avanzamento lavori. Il paesaggio assume toni agresti, tanto che sulla carreggiata fanno la loro comparsa anche i carretti trainati dai cavalli.
Il trasferimento verso Sibiu prevede la visita di due importanti luoghi di culto ortodossi, il Monastero di Curtea de Arges, e il Monastero di Cozia, anticipo della forte devozione riscontrata più in là nei Monasteri di Bucovina.
Le icone, gli affreschi, le dorature fanno da contraltare alla sobrietà di decine di candeline accese in locali attigui per ricordare nella preghiera i propri cari vivi e defunti. C’è qualcosa di ipnotico in quelle esili fiaccole, una spiritualità che mi cattura: che siano la vita e la morte poste apparentemente sullo stesso piano devozionale a farmi questo effetto?
Sia quel che sia, si riprende il viaggio fra alberghi e stabilimenti termali già noti ai Romani nell’antichità.
Sibiu ci accoglie con qualche goccia di pioggia e un clima più fresco. L’impronta mitteleuropea è chiaramente visibile negli edifici che circondano la piazza. La presenza sassone nei secoli ha plasmato l’architettura cittadina tanto che, a un primo sguardo, parrebbe di trovarsi nel cuore dell’antico Impero austro-ungarico.
Unica nota peculiare i lucernari che bucano i tetti delle case: visti dal basso sembrano tanti occhi a scrutare la piazza coi suoi visitatori e, poco più in là, altri tetti sembrano caratterizzare Sibiu. Dalla parte alta della città si gode una vista mozzafiato sulle vecchie case sassoni in un’alternanza di coperture più o meno recenti.
Il tempo imbronciato di Sibiu ci concede una tregua a Medias, altra vivace cittadina di impianto sassone. La chiesa evangelica, un po’ decentrata, è resa meno spoglia dai tappeti appesi alle balaustre e ai lati dell’altare, ricordo della sua posizione strategica. La cittadina si trovava infatti sulle rotte commerciali che dall’Oriente portavano in Occidente e gli antichi carovanieri avvertivano forte il bisogno di ringraziare per essere giunti sin qui.
Nel giardino attorno alla chiesa fa bella mostra di sé un pozzo perfettamente funzionante. Alcuni abitanti di Medias arrivano con tanto di secchi e avviano l’approvvigionamento. Trovo una grande poesia nella ritualità di questo atto quotidiano, così come nell’offerta di parte dell’acqua attinta.
Anche l’approccio al mercato locale riporta una sorta di poesia dei tempi andati. All’esterno i rom stazionano davanti ai loro banchetti di bacche e radici, le vecchiette si aggirano fra la gente stringendo mazzetti di erbe, gli anziani arrivano in sella ad una vecchia bicicletta dipinta e abbellita con un nastro che ricalca i colori della bandiera romena.
La poesia assorbita sin qui sfuma davanti alla fredda architettura socialista della stazione ferroviaria. Colpisce questo ritorno al passato, in particolare il tabellone con gli orari dei treni. Nessuna tecnologia. E’ l’uomo ad aggiornarlo, alternando la propria calligrafia a targhette prestampate dai caratteri più o meno vividi. Non capisco bene a cosa serva: leggerlo da lontano è pressoché impossibile e da vicino l’interpretazione non risulta più agevole. A modo suo è un’opera d’arte, forse per questo è appeso a quella parete come un quadro in bella mostra.
Ma, come spesso accadrà in questo viaggio, gli scenari scorrono veloci, qualche decina di chilometri di paesaggio collinare ed eccoci a Biertan. Eleganti case sassoni costeggiano il viale/strada principale che, a un tratto, si apre sullo slargo di un giardino pubblico lasciando spazio alla cittadella fortificata.
Basta la vista esterna a giustificarne l’inserimento nell’elenco dei monumenti dell’Unesco. La Chiesa in stile tardo gotico è stretta nell’abbraccio delle tante torri che la circondano, una in particolare crea un po’ di “gossip” fra noi viaggiatori. Cristina ci spiega che nella torre prigione venivano rinchiusi per una settimana i coniugi intenzionati a separarsi. I due erano costretti a dividere suppellettili, arredi e spazi pensati per una presenza soltanto. Leggenda o realtà? Chissà…
Tornati a bordo, Leonardo suggerisce una deviazione dalla strada principale, perciò Luigi, il nostro autista efficiente ed ermetico, guida verso l’interno e in un attimo ci troviamo in quello che un tempo era un villaggio sassone. Luigi parcheggia a ridosso delle prime case lasciando proseguire a piedi la comitiva. Lì per lì la sensazione è quella di un villaggio pressoché disabitato: alcuni ragazzi a torso nudo seduti in una sorta di bar improvvisato, sotto il portico di quella che appare come la torre della Chiesa e qualche carretto coi cavalli “posteggiato” fuori dai portoni. Mi langue, però, una strana sensazione che identifico in quel vedere senza essere visti, tipica del muoversi in territori non conosciuti. Non appena la realizzo sbucano da ogni angolo bambini vocianti e madri con pargoli al collo, le mani tese a chiedere soldi, caramelle e di tutto un po’.
Difficile accomiatarsi, non mollano. Ma Luigi ci vede lungo e in pochi minuti ci raggiunge e ci fa salire a bordo. Nel tempo della salita il cestino delle caramelle presente sul cruscotto viene svuotato da qualche compagno di viaggio di buon cuore. I bambini ringraziano e faticano ancora ad andarsene, malgrado la chiusura delle porte.
Sono i figli delle popolazioni rom che hanno occupato le case dei Sassoni di Transilvania quando questi le hanno abbandonate. Qui sembra tutto in disarmo e l’unica nota di progresso è data dalle parabole piantate sulle case, pronte a captare ogni segnale di “modernità” in arrivo dall’etere.
Poco fuori dal paese il pullman di Luigi incrocia un autobus di linea sgangherato. Non so perché ma questa visione rinfranca il mio immaginario, alle prese con visioni di claustrofobico isolamento. Uno spiraglio di sole e lo scambio di battute fra compagni di viaggio sollevano ulteriormente l’umore.
In tarda serata entriamo nel cuore della Transilvania. Sistemati i bagagli, rimane il tempo per un giro nel centro di Sighisoara, sulle orme del Conte Voivoda Vlad Tepes, consegnato alla storia dal romanziere irlandese Stoker come Conte Dracula. Ma il Conte non ci riserva una grande accoglienza visto il temporale degno dei migliori thriller che ci coglie sotto la torre dell’Orologio! Sarà la scala coperta ad offrirci un riparo, nell’attesa, rivelatasi poi vana, di poter visitare la Chiesa e il cimitero attiguo. Stanchi e umidicci troviamo conforto nelle chitarre di due artisti di strada. Le musiche spaziano dalle classiche melodie per chitarra alle ballate popolari rumene e, sull’onda della musica, Claudia, Gabriella e Renata improvvisano danze.
Si crea un’atmosfera magica: la penombra è rotta dai lampi, il fragore dei tuoni si accompagna alla musica e a tutto ciò si accompagna a sua volta il tonfo sordo delle mele selvatiche che cadono sulla copertura in legno sotto i colpi del temporale. Un fuori programma degno dei migliori programmi!
E a cena la figura del Conte Dracula aleggia ancora nella taverna a lui dedicata. Appagati da suoni, atmosfere e sapori torniamo in albergo pronti a ripartire la mattina successiva.
Gli scrosci del temporale di Sighisoara si trasformano in pioggia copiosa nel viaggio del giorno dopo. Nonostante il grigiore del tempo, Targu Mures mostra la sua eleganza sfoggiando gli abiti della festa nell’architettura art noveau del Palazzo della Cultura.
Lasciati i fasti procediamo spediti verso la Bucovina, parte dell’attuale Moldavia romena. Il paesaggio cambia, si spiana e assume un carattere decisamente bucolico. Nei prati decine di covoni di fieno ammonticchiati da braccia robuste senza alcun ausilio di tecnologia, ai lati della strada donne e ragazzi Rom coi loro funghi e frutti di bosco, sulla strada i carretti coi cavalli non si contano. Nei pressi di Gura Humorului, la nostra destinazione, fa la sua comparsa anche il trenino rosso della CFR, la compagnia ferroviaria romena. La locomotiva traina pochi vagoni, a bordo rari passeggeri salutano e, a completare il quadretto, sbucano anche i nidi delle cicogne appoggiati ai tralicci elettrici. Visioni che, ai miei occhi, non hanno prezzo.
L’albergo è piuttosto decentrato, ricorda una colonia montana, ma la posizione è strategica per girovagare in lungo e in largo fra i monasteri della Bucovina.
Moldovita, Sucevita, Voronet, costruiti fra il XV e XVI come luoghi di culto “a cielo aperto”. Le pareti affrescate a tinte vivaci dovevano spiegare ai fedeli vicende bibliche, parlargli attraverso le gesta di Santi e le visioni di Angeli, indurre una spiritualità che appare tuttora presente negli affreschi, così come nelle macchie dei cespugli di rose, nei fiori dei giardini e nell’ordine quieto che nemmeno il turismo riesce a scalfire.
Il viaggio riprende, è un transfer piuttosto lungo, una tappa di spostamento. Nel tardo pomeriggio le atmosfere bucoliche cedono il passo all’ambientazione sassone di Brasov. Nella Chiesa Nera i numerosi tappeti appesi ricordano la posizione strategica della città crocevia fra l’Europa e l’Impero Ottomano. La mattina successiva sarà il quartiere romeno di Schei ad apparire come la vera sorpresa di Brasov con le casette senza fronzoli, rimaste integre nei secoli, e la scuola annessa alla chiesa fornita di banchi, pallottolieri e lavagne d’epoca.
Di nuovo a bordo, rotta verso la Transilvania. Il Castello di Bran vale una visita, non fosse altro per ciò che rappresenta agli occhi dell’immaginario collettivo visto che Stoker, oltre al bistrattato conte Vlad, “prese a prestito” anche il castello per ambientare il suo romanzo.
La difficoltà di Luigi nel trovare una collocazione nel parcheggio dei pullman e la coda davanti alla biglietteria la dicono lunga sul ruolo assurto dal castello nei circuiti del turismo di massa.
In pochi chilometri si gira pagina, altro castello, altro clima. A Sinaia il castello di Peles sembra ricalcare le suggestioni di Neuschwanstein, ma la Romania non perde occasione di rivendicare la sua originalità. Il vicino castello di Pelisor è una chicca dell’art nouveau, ogni stanza lascia a bocca aperta per gusto e raffinatezza, nulla appare eccessivo. Vivere qui non deve essere stato per nulla sgradevole, molte suppellettili e arredi sembrano appartenere ai giorni nostri, così come l’impianto di riscaldamento originale, tuttora funzionante, con tanto di caloriferi.
La fine della visita ci riporta alla brusca realtà: di lì a qualche ora saremo di nuovo a Bucarest, prima ma anche ultima tappa del viaggio. La stanchezza e la malinconia si stemperano attorno ai tavoli della storica birreria “Caru’ cu bere”. Il clima è decisamente cosmopolita, i piatti abbondanti e non mancano esibizioni di balli da sala nei locali del piano terra. Fra le acrobazie delle danze, i camerieri attendono l’attimo propizio per uscire a servire i tavoli in un’atmosfera che sarà il suggello di questo viaggio del cuore fra i tesori di Bucovina e Transilvania, ad est dell’ovest e ad ovest dell’est.
Rossella Saltini, settembre 2015.
Ps: Avrei dovuto aggiungere altre località, monumenti visitati, e situazioni vissute ma lascio ai viaggiatori a venire il piacere della scoperta!
E ora i ringraziamenti, quanto mai sentiti e doverosi.
A Leonardo, guida storica, eroica e affidabile, padrone delle situazioni in ogni contesto.
A Cristina, guida competente e di cuore, nonché donna di grande sensibilità e squisita umanità.
A Luigi, autista ermetico ed efficiente, che con il suo “occhio lungo” ci ha trasportati in lungo e in largo e riportati a casa sani e salvi.
Infine, least but not last, un grazie di cuore agli splendidi ed unici compagni di viaggio, con la speranza di avere il privilegio di condividere con loro nuove esperienze di viaggio.