Una fossa comune con più di 400 persone, a Tomašica, vicino Prijedor. Bosnia-Erzegovina. Scoperta in ottobre del 2013. Stanno ancora lavorando per riesumare i corpi e dar loro un nome. Un lavoro lungo e doloroso: una madre, a vent’anni dalla guerra dei Balcani, ha ritrovato i suoi 5 figli e il marito. Risultavano dispersi. E il suo dolore era continuo e sospeso. Finalmente potrà dare loro sepoltura. Provare a chiudere una ferita che ha continuato a sanguinare. La biblioteca di Sarajevo dove sono scomparsi circa un milione di volumi: ora è stata ristrutturata. Sono stati tolti i ponteggi e l’antico edificio, simbolo di una cultura fatta di incontri e rispetto, di religioni che dialogano e si contaminano tra loro, bruciato dal fuoco dei serbi nella notte tra il 25 e il 26 agosto del 1992, tornerà ad aprire i battenti. Ma senza il suo contenuto originario. A Mostar, la città del ponte del ‘500, distrutto per separare la parte mussulmana da quella cristiana, oggi si vendono souvenir fatti con i bossoli delle pallottole sparate per uccidere. Sono tre tappe, tre finestre aperte in Bosnia Erzegovina dal gruppo di ragazzi del Liceo Leonardo da Vinci.
“E’ stato meraviglioso e sconvolgente allo stesso tempo vedere come la guerra sia riuscita in pochissimo tempo a minare l’unità e il perfetto amalgama tra religioni, culture, lingue e usi differenti. Durava da secoli: ora nonostante i tentativi molteplici di riconciliazione, resta viva e palese solo nell’architettura delle città, con minareti e campanili e sinagoghe, una accanto all’altra”, scrive uno degli studenti del da Vinci che dall’8 al 12 di aprile è andato, con un progetto organizzato dalla scuola, in una molto particolare “gita scolastica” che in questo caso si può propriamente definire “viaggio d’istruzione”. Al posto della solita gita in una rassicurante capitale europea i giovani del liceo scientifico (le tre classi quarta A, quarta C, quarta F), prima con qualche titubanza poi alla fine con grande entusiasmo, accompagnati dai loro docenti (Sandro Bertoni, Cristina Bonmassar, Stefano Brusciati, Michele Dossi, Luisa Maroni, Alberto Piccioni) e con l’organizzazione dell’associazione “Viaggiare i Balcani” e dell’Osservatorio Balcani e Caucaso del Trentino, hanno potuto fare esperienza diretta di cosa significhi la guerra e come si possa distruggere una convivenza millenaria. E guardare la fatica della ricostruzione e della riconciliazione. “Non è facile comprendere le conseguenze causate da guerre così devastanti. Non è facile immedesimarsi in una situazione precaria di vita. Non è facile vedere case ancora distrutte da bombe e proiettili. Ma sopratutto non è facile vedere i volti delle persone che hanno vissuto questa catastrofe. Noi, con questo viaggio, ci siamo messi alla prova e abbiamo cercato di comprendere e toccare da vicino cosa significhi guerra, sofferenza e speranza”, scrive una ragazza alla fine del viaggio. Tre città: Prijedor, Sarajevo, Mostar. Nella prima, oltre agli incontri canonici in un luogo teatro di pulizia etnica, dove da anni l’Associazione Progetto Prijedor svolge attività di sostegno, mediazione e riconciliazione, s’è incontrato il dolore e la povertà. Quello di chi ancora sta riconoscendo i morti, persone uccise perché appartenenti ad una etnia. Non è facile capire perché. Non è semplice entrare in un paese dove per secoli sono convissute tre religioni (quattro se si considera i cristiani nelle due confessioni, cattolica e ortodossa), dove – come a Sarajevo – si trovano a distanza di pochi metri chiese cattoliche, ortodosse, moschee e sinagoghe e scoprire la violenza, la distruzione, la morte. Si prova a spiegare ai giovani che i cattolici sono croati, i serbi ortodossi, i bosniaci mussulmani.
Ma poi si scopre che un serbo, il generale Jovan Divjak, eroe nazionale, ha difeso la città di Sarajevo dall’assedio dei serbi, custodendo i mussulmani. E allora le cose si fanno complicate. O più semplici se si considera che il generale oggi ha messo in piedi una associazione (la OGBH, acronimo di «Obrazovanje Gradi BiH»,«L’istruzione costruisce la Bosnia») per aiutare i giovani, quelli rimasti orfani per la guerra e tutti i ragazzi in difficoltà nella città della biblioteca bruciata. La culla della cultura della Bosnia dove attualmente non ci sono i soldi per tenere aperto nemmeno il museo nazionale principale. E’ tristemente chiuso. Divjak ha incontrato i giovani trentini, ha mostrato loro il tunnel sotto l’aeroporto che è servito nei quattro anni di assedio di Sarajevo per far sopravvivere la popolazione facendo transitare viveri e medicinali. Non sempre la comunità internazionale ha dato il meglio: tra i viveri e gli aiuti c’erano, nel ’93, dei barattoli di cibo fabbricati negli anni ’60, per il Vietnam. Ma il generale ha ricordato anche e sopratutto gli aiuti degli italiani. Di quella cinquantina di pacifisti, dell’organizzazione “Beati i costruttori di pace” che arrivarono a Sarajevo disarmati per aiutare la popolazione e dare una speranza di “non-violenza”. “In Bosnia-erzegovina durante la guerra sono state uccise più di 100.000 persone – ha ricordato Divjak spiegando poi cosa stanno facendo per ricostruire il futuro –. I nostri aggressori avevano intenzione di distruggere la nostra cultura, fatta di rispetto reciproco e convivenza. Le prime vittime delle guerre sono i bambini, le donne e la cultura, l’educazione. Per andare avanti abbiamo pensato di dare particolare attenzione ai giovani vittime di guerra. Oggi aiutiamo indistintamente i giovani di tutte le etnie. In 20 anni di attività abbiamo avuto 5.400 giovani che hanno ricevuto una borsa di studio”. Ma in Bosnia ci sono tre programmi scolastici diversi per le tre etnie; 10 cantoni con 10 ministri dell’istruzione e altrettante legislazioni scolastiche. Esistono ancora 50 scuole con programmi diversi: sotto il medesimo tetto i ragazzi croati e quelli bosniaci studiano programmi diversi. “Ero molto triste per questa permanente divisione – ha detto il generale – poi ho scoperto che a Bolzano c’è una situazione scolastica simile alla nostra”. Per ultimo Divjak ha lamentato l’assenza di intellettuali non nazionalisti in Bosnia-Erzegovina e la carenza di fondi.
L’ultima tappa dei giovani trentini è stata Mostar, con il ponte del XVI secolo distrutto da un mortaio dei croati nel ’93 e ricostruito dai turchi nel 2004. In città ancora i segni della guerra, ma si ha l’impressione che la violenza e la distruzione del passato siano ora riutilizzate a fini turistici. Sulla città spicca il campanile della chiesa dei francescani: l’hanno recentemente rifatto più alto di tutti i minareti della città. Ma la convivenza e il dialogo non si nutre con i metri dei campanili.