Sono passati venti anni da quando migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi da parte delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić con l’appoggio dei gruppi paramilitari guidati da Zeliko Raznatović nella zona protetta di Srebrenica che si trovava in quel momento sotto la tutela delle Nazioni Unite.

Per noi era una estate come tante, per gli abitanti di quella città famosa per le miniere di argento e per le prodigiose acque termali era la fine della loro storia e l’inizio dell’Inferno più terribile.

E i segni di quell’inferno lontano venti anni, ma ancora violentemente presente nel quotidiano di Srebrenica, si leggono ancora oggi. Ne parla ogni muro della città che non è deserta, ma dove capisci che manca qualcosa; ne parla ogni bottega vuota di artigiano e mai riaperta, ogni officina; ne parla l’hotel imponente per dimensioni e un tempo di lusso che porta ancora le ferite del conflitto che pare ancora non del tutto placato,; ne parlano gli occhi delle anziane private di ogni familiare maschio. Ne parla il senso di vuoto, il silenzio, che non è pace, ma è assenza.

Cosa è oggi quella città dove venti anni fa vennero uccisi tutti gli abitanti maschi e anche i bambini che avevano almeno 12 anni e dove molte donne furono costrette a partorire figli dello stupro per completare una delle più feroci pulizie etniche?

E’ una città non città, dove arrivi ma dove ti sembra di essere sempre in periferia e invece ti trovi tra la chiesa e la moschea che ne rappresentano il centro, dove si riconoscono i segni di un passato fiorente, dove, a fatica, immagini la grandezza di un tempo, ma avverti che è stata vissuta, dove i segni di distruzione e svuotamento interiore sono ancora più profondi e dove in un attimo sai che difficilmente potrà tornare come era.

Oggi a Srebrenica gli uomini più anziani hanno trenta anni, le figure anziane che vedi sono donne, vestite di nero e col fazzoletto in testa che hanno visto i propri padri, mariti fratelli e figli trucidati in nome di una etnia, che hanno visto i loro cari consegnati dagli stessi caschi blu olandesi al generale Mladić che poi li ha fucilati, sotterrati in fosse comuni per poi disseppellirli con una ruspa e di nuovo sotterrarli in altre fosse comuni per confonderne anche le ossa.

Lo scorso aprile con tre classi del liceo scientifico di Ravenna siamo stati a Srebrenica e abbiamo visitato il memoriale dell’eccidio e il cimitero dove ogni giorno donne col fazzoletto in testa vanno a visitare le tombe bianche, uguali, disposte in file infinite che hanno reso la collina tutta bianca. Sono 8372 quelle tombe ma il numero è ancora provvisorio; molti corpi mancano perché non sono stati ancora identificati dal DNA in quell’inferno di ossa confuse più volte e che non hanno trovato ancora riposo e pace.

C’è un’associazione di giovani a Srebrenica che indifferenti all’etnia di appartenenza e a dispetto del progetto di morte destinato alla città, prova a ricominciare di nuovo a vivere e a convivere.

Le donne anziane non sanno più sorridere, ma loro sì e sono contenti di potere ospitare qualcuno nella loro associazione perché sanno che è proprio da loro stessi, dalla loro volontà rivolta al bene e al futuro che si può provare ad allontanare il male.

C’è una lapide nel cimitero che sembra una preghiera universale:

Nel nome di Dio misericordioso,
compassionevole,
ti prego dio onnipotente
che la tristezza diventi speranza
che la vendetta diventi giustizia
che la lacrima della madre diventi
una preghiera
che a nessuno ricapiti mai l’orrore
di Srebrenica


Malara Antonella
Giovannini Rossella
Serri Emanuela
Docenti del Liceo Scientifico di Ravenna

Condividi su

Ti potrebbe piacere: