La tappa a Redipuglia (di Emiliano De Giovanelli)
Il primo giorno della gita alla volta Sarajevo, anziché sostare presso un autogrill abbiamo deciso di far tappa a Redipuglia per visitare il sacrario militare. E’ un monumentale cimitero militare situato in Friuli Venezia Giulia (teatro di numerose battaglie), costruito in epoca fascista e dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Si eleva solenne la gradinata che custodisce, in ordine in ordine alfabetico dal basso verso l’alto, le spoglie di 40.000 caduti noti ed i cui nomi figurano incisi in singole lapidi di bronzo. La scalinata è formata da ventidue gradoni su cui sono allineate le tombe dei caduti e le iscrizioni recano tutte la scritta “presente”. Mi ha colpito molto l’imponenza del cimitero che ben rappresenta l’enorme numero dei caduti e testimonia come ogni guerra lasci distruzione e morte. Mi è sembrata una giusta scelta questa visita a Redipuglia, perché ha introdotto al meglio il viaggio a Sarajevo, luogo dov’è scoppiata la scintilla che ha scatenato la prima guerra mondiale e luogo di una delle più recenti guerre alle porte di casa nostra.
Jasenovac – Foto © Leonardo Barattin
Il campo di concentramento di Jasenovac (di Noa Ndimurwanko)
La natura del paesaggio ha nascosto bene i dolori di questo territorio. Niente sembra poter ricordare quel periodo, tra il ’41 e il ’45, dove questi prati erano il palcoscenico di una delle più grandi vergogne dell’umanità. Solo le vecchie rotaie in legno lasciano un segno di quel tragico percorso che ha portato alla morte di serbi, zingari, bosniaci, ebrei ed oppositori politici. Passeggiandoci accanto non si riesce nemmeno a immaginare la brutalità che quella terra ha coperto con il passare del tempo. Dove ora occupa un posto un fiore, una volta era disteso un uomo. Qui, proprio qui, dove noi ignari potremmo fare un picnic e passare un sereno pomeriggio, durante la seconda guerra mondiale è stato eretto, dai governanti fascisti dello Stato Indipendente di Croazia, il campo di concentramento più grande di tutti i Balcani. Purtroppo non si possono raccontare aneddoti felici di questa nostra tappa, come vorremmo. La realtà ce lo impedisce, la storia racconta invece che questa ignobile e brutale struttura fu persino diretta per due mesi da un francescano che vi era entrato come prigioniero in precedenza; e che un ragazzo, nel 1942, uccise 1.360 prigionieri per una scommessa, li sgozzò e gli fu dato il soprannome di “Re delle teste serbe tagliate”. Storie che fanno rabbrividire nonostante il caldo che ci avvolge in questa serena giornata di aprile.
Da Prijedor a Sarajevo (di Anna Strada)
E’ la mattina del secondo giorno. Salutiamo la famiglia che ci ha ospitato per la notte. Una dolce pioggerella ci accompagna attraverso la piccola città di Prijedor. Tutto tace. Risaltano i campanili delle chiese ortodosse per i loro colori e la loro imponenza. Si respira la povertà nella quale vivono queste persone che camminano con un dolce sorriso quando ci incontrano. Le case con i mattoni a vista, i campi aridi, le strade non curate, le case abbandonate dopo la guerra e mai risistemate… Intorno alle 11:30 saliamo sul nostro pullman alla volta di Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina. Non ci sono le autostrade come da noi. Percorriamo una strada tra le montagne, accanto a noi c’ è un fiume. Le prime cose che ci impressionano maggiormente è la desolazione delle case di questa periferia… sembra di essere nelle nostre campagne rimaste indietro di cinquant’ anni. L’ unica forma di sussistenza sembra essere l’agricoltura e l’allevamento. Al passare del nostro immenso pullman le persone interrompono il loro lavoro nelle campagne per voltarsi verso di noi e parlare tra loro. Verso sera arriviamo nella capitale. Qui sembra tutto più comune: i grandi palazzi, i rumori dell’aeroporto, gli autobus, la folla di macchine e di gente… Quello che ci colpisce maggiormente è la presenza di così tante chiese, moschee, sinagoghe, tutte nell’ arco di poche centinaia di metri. Il giorno seguente durante alcune ore di tempo libero facciamo una passeggiata nel centro della città e ai nostri occhi risaltano subito alcuni edifici rovinati dalla guerra, in macerie, e ci chiediamo come essi possano essere ridotti così mentre accanto si trova un centro commerciale appena terminato, all’ ultima moda. Durante la visita al tunnel ci viene raccontata la storia di questa città negli anni ’90. Era il 1994 quando Sarajevo venne accerchiata dalle truppe serbe e assediata per quasi tre anni. Il cibo scarseggiava, la gente doveva arrangiarsi come meglio poteva. La città resisteva e la popolazione combatteva: rimasero attivi i teatri, i cinema, vennero organizzati concerti per tenere alto il morale dei cittadini. Ci immedesimiamo nella cultura e nello stile di vita di queste persone quando ormai è già ora di ripartire per la nostra ultima tappa: Mostar.
Il tunnel di Sarajevo
Il tunnel di Sarajevo (di Riccardo Tonelli)
L’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna, è durato oltre 1400 giorni. Per tutto questo periodo la città completamente circondata dalle truppe serbe ha dovuto sopportare continui bombardamenti, fame, sete, freddo e malattie. L’aeroporto della capitale tuttavia già un mese dopo l’inizio del conflitto, nel giugno 1992, venne aperto e presidiato dalle forze ONU che per tutta la durata dell’assedio si occuparono di aiutare la popolazione fornendo viveri, medicine e armi ai difensori della città. Questa sottile striscia di asfalto, martellata quotidianamente dai colpi di mortaio, costituiva l’unico punto della città libero dalle truppe serbe e si affacciava sui territori bosniaci non occupati. Per questo i difensori della città decisero di aprirsi una via sotto l’aeroporto, scavando un tunnel lungo oltre 800 metri e alto un metro e mezzo, diventato uno dei simboli di questa guerra. E così, lavorando incessantemente con massacranti turni di 8 ore, con la paura costante di essere scoperti e utilizzando attrezzi e materiali improvvisati, i volontari bosniaci riuscirono in soli cinque mesi a costruire l’unica via che consentisse di entrare o uscire dalla città, una via che permettesse di trasportare armi e munizioni, ma soprattutto cibo, acqua e medicine che con il corso del tempo, specialmente di inverno, divennero introvabili e costosissime. In questo modo moltissime persone riuscirono a salvarsi e molti feriti poterono essere curati e portati fuori città. Oggi la casa che ospitava l’ingresso del tunnel che reca ancora i segni dei proiettili sui muri è diventata un museo ed è possibile percorrere anche 20 metri della galleria che, per motivi di sicurezza e trovandosi su suolo militare, non è accessibile per intero.
Mostar (di Mattia Bosetti e Martin Paissan)
Il nome Mostar deriva dal suo “ponte vecchio” (Stari Most) e dalle torri sulle due rive, dette i “custodi del ponte” (mostari). Abbiamo visto di persona dei ragazzi lanciarsi nel fiume dall’altissimo ponte, ed e? stata un’esperienza unica. Dobbiamo ringraziare una comitiva di giapponesi che li hanno pagati (e neanche poco da quel che ricordiamo). In citta? ci sono ancora i segni della guerra in certi palazzi, ma c’e? anche la voglia di ricominciare. Tutto ruota attorno al ponte vecchio. Durante la guerra fu volontariamente bombardato. “Era il simbolo, e non il manufatto, che si è voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interesse strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare”. E fu quello che successe realmente: infatti mussulmani e croati, che vivevano tranquillamente sulle due sponde opposte del fiume, cominciarono a massacrarsi fra di loro, in una guerra tanto inutile quanto sanguinosa. Adesso Mostar e una citta? bellissima, che vanta molti locali a buon mercato dove poter mangiare in caratteristiche location, molti negozi di souvenir, molti scorci caratteristici. La gente e? molto semplice e allo stesso tempo molto cordiale.
Il primo giorno della gita alla volta Sarajevo, anziché sostare presso un autogrill abbiamo deciso di far tappa a Redipuglia per visitare il sacrario militare. E’ un monumentale cimitero militare situato in Friuli Venezia Giulia (teatro di numerose battaglie), costruito in epoca fascista e dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Si eleva solenne la gradinata che custodisce, in ordine in ordine alfabetico dal basso verso l’alto, le spoglie di 40.000 caduti noti ed i cui nomi figurano incisi in singole lapidi di bronzo. La scalinata è formata da ventidue gradoni su cui sono allineate le tombe dei caduti e le iscrizioni recano tutte la scritta “presente”. Mi ha colpito molto l’imponenza del cimitero che ben rappresenta l’enorme numero dei caduti e testimonia come ogni guerra lasci distruzione e morte. Mi è sembrata una giusta scelta questa visita a Redipuglia, perché ha introdotto al meglio il viaggio a Sarajevo, luogo dov’è scoppiata la scintilla che ha scatenato la prima guerra mondiale e luogo di una delle più recenti guerre alle porte di casa nostra.
Il campo di concentramento di Jasenovac (di Noa Ndimurwanko)
La natura del paesaggio ha nascosto bene i dolori di questo territorio. Niente sembra poter ricordare quel periodo, tra il ’41 e il ’45, dove questi prati erano il palcoscenico di una delle più grandi vergogne dell’umanità. Solo le vecchie rotaie in legno lasciano un segno di quel tragico percorso che ha portato alla morte di serbi, zingari, bosniaci, ebrei ed oppositori politici. Passeggiandoci accanto non si riesce nemmeno a immaginare la brutalità che quella terra ha coperto con il passare del tempo. Dove ora occupa un posto un fiore, una volta era disteso un uomo. Qui, proprio qui, dove noi ignari potremmo fare un picnic e passare un sereno pomeriggio, durante la seconda guerra mondiale è stato eretto, dai governanti fascisti dello Stato Indipendente di Croazia, il campo di concentramento più grande di tutti i Balcani. Purtroppo non si possono raccontare aneddoti felici di questa nostra tappa, come vorremmo. La realtà ce lo impedisce, la storia racconta invece che questa ignobile e brutale struttura fu persino diretta per due mesi da un francescano che vi era entrato come prigioniero in precedenza; e che un ragazzo, nel 1942, uccise 1.360 prigionieri per una scommessa, li sgozzò e gli fu dato il soprannome di “Re delle teste serbe tagliate”. Storie che fanno rabbrividire nonostante il caldo che ci avvolge in questa serena giornata di aprile.
Da Prijedor a Sarajevo (di Anna Strada)
E’ la mattina del secondo giorno. Salutiamo la famiglia che ci ha ospitato per la notte. Una dolce pioggerella ci accompagna attraverso la piccola città di Prijedor. Tutto tace. Risaltano i campanili delle chiese ortodosse per i loro colori e la loro imponenza. Si respira la povertà nella quale vivono queste persone che camminano con un dolce sorriso quando ci incontrano. Le case con i mattoni a vista, i campi aridi, le strade non curate, le case abbandonate dopo la guerra e mai risistemate… Intorno alle 11:30 saliamo sul nostro pullman alla volta di Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina. Non ci sono le autostrade come da noi. Percorriamo una strada tra le montagne, accanto a noi c’ è un fiume. Le prime cose che ci impressionano maggiormente è la desolazione delle case di questa periferia… sembra di essere nelle nostre campagne rimaste indietro di cinquant’ anni. L’ unica forma di sussistenza sembra essere l’agricoltura e l’allevamento. Al passare del nostro immenso pullman le persone interrompono il loro lavoro nelle campagne per voltarsi verso di noi e parlare tra loro. Verso sera arriviamo nella capitale. Qui sembra tutto più comune: i grandi palazzi, i rumori dell’aeroporto, gli autobus, la folla di macchine e di gente… Quello che ci colpisce maggiormente è la presenza di così tante chiese, moschee, sinagoghe, tutte nell’ arco di poche centinaia di metri. Il giorno seguente durante alcune ore di tempo libero facciamo una passeggiata nel centro della città e ai nostri occhi risaltano subito alcuni edifici rovinati dalla guerra, in macerie, e ci chiediamo come essi possano essere ridotti così mentre accanto si trova un centro commerciale appena terminato, all’ ultima moda. Durante la visita al tunnel ci viene raccontata la storia di questa città negli anni ’90. Era il 1994 quando Sarajevo venne accerchiata dalle truppe serbe e assediata per quasi tre anni. Il cibo scarseggiava, la gente doveva arrangiarsi come meglio poteva. La città resisteva e la popolazione combatteva: rimasero attivi i teatri, i cinema, vennero organizzati concerti per tenere alto il morale dei cittadini. Ci immedesimiamo nella cultura e nello stile di vita di queste persone quando ormai è già ora di ripartire per la nostra ultima tappa: Mostar.
Il tunnel di Sarajevo (di Riccardo Tonelli)
L’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna, è durato oltre 1400 giorni. Per tutto questo periodo la città completamente circondata dalle truppe serbe ha dovuto sopportare continui bombardamenti, fame, sete, freddo e malattie. L’aeroporto della capitale tuttavia già un mese dopo l’inizio del conflitto, nel giugno 1992, venne aperto e presidiato dalle forze ONU che per tutta la durata dell’assedio si occuparono di aiutare la popolazione fornendo viveri, medicine e armi ai difensori della città. Questa sottile striscia di asfalto, martellata quotidianamente dai colpi di mortaio, costituiva l’unico punto della città libero dalle truppe serbe e si affacciava sui territori bosniaci non occupati. Per questo i difensori della città decisero di aprirsi una via sotto l’aeroporto, scavando un tunnel lungo oltre 800 metri e alto un metro e mezzo, diventato uno dei simboli di questa guerra. E così, lavorando incessantemente con massacranti turni di 8 ore, con la paura costante di essere scoperti e utilizzando attrezzi e materiali improvvisati, i volontari bosniaci riuscirono in soli cinque mesi a costruire l’unica via che consentisse di entrare o uscire dalla città, una via che permettesse di trasportare armi e munizioni, ma soprattutto cibo, acqua e medicine che con il corso del tempo, specialmente di inverno, divennero introvabili e costosissime. In questo modo moltissime persone riuscirono a salvarsi e molti feriti poterono essere curati e portati fuori città. Oggi la casa che ospitava l’ingresso del tunnel che reca ancora i segni dei proiettili sui muri è diventata un museo ed è possibile percorrere anche 20 metri della galleria che, per motivi di sicurezza e trovandosi su suolo militare, non è accessibile per intero.
Mostar (di Mattia Bosetti e Martin Paissan)
Il nome Mostar deriva dal suo “ponte vecchio” (Stari Most) e dalle torri sulle due rive, dette i “custodi del ponte” (mostari). Abbiamo visto di persona dei ragazzi lanciarsi nel fiume dall’altissimo ponte, ed e? stata un’esperienza unica. Dobbiamo ringraziare una comitiva di giapponesi che li hanno pagati (e neanche poco da quel che ricordiamo). In citta? ci sono ancora i segni della guerra in certi palazzi, ma c’e? anche la voglia di ricominciare. Tutto ruota attorno al ponte vecchio. Durante la guerra fu volontariamente bombardato. “Era il simbolo, e non il manufatto, che si è voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interesse strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare”. E fu quello che successe realmente: infatti mussulmani e croati, che vivevano tranquillamente sulle due sponde opposte del fiume, cominciarono a massacrarsi fra di loro, in una guerra tanto inutile quanto sanguinosa. Adesso Mostar e una citta? bellissima, che vanta molti locali a buon mercato dove poter mangiare in caratteristiche location, molti negozi di souvenir, molti scorci caratteristici. La gente e? molto semplice e allo stesso tempo molto cordiale.