Superamento del conflitto, memoria condivisa, riconciliazione, convivenza pacifica, perdono sono problemi aperti non solo nei Balcani o in poche aree circoscritte del mondo, ma toccano l’intera società contemporanea, in un’epoca in cui la globalizzazione non riguarda solo le merci. Un’occasione per riflettere. La Bosnia, dunque, come spunto di riflessione e di approfondimento su aspetti essenziali della convivenza civile, che investono ciascuno in egual modo a tutte le latitudini. Per sette giorni dunque, questo composito gruppo di insegnanti ha viaggiato sul suolo bosniaco, osservando tutto, ascoltando, ponendo domande; alcuni prendendo appunti, altri registrando, filmando, fotografando. Poi il viaggio è finito, ognuno è tornato a casa, alla propria famiglia, nella propria città. Tuttavia, ogni viaggiatore responsabile e consapevole, dentro di sé sa che il viaggio continua ancora a lungo, soprattutto se i luoghi che lo hanno ospitato sono particolarmente significativi, per storia, cultura, arte, modi di vivere, visione del mondo. Approfitto, perciò, di questo spazio per condividere con i colleghi insegnanti ciò che del viaggio in Bosnia resta in me e nei compagni che vi hanno partecipato.
Ciò che rimane: le parole
Innanzitutto restano le parole di alcuni uomini e donne incontrati lungo il cammino. Comincerei da quelle pronunciate da Sead Jacupovic, musulmano di Prijedor, internato nel 1992 nel campo di concentramento di Omarska. Scampato miracolosamente alla morte, ha vissuto esule a Londra e in Italia per poi tornare, finita la guerra, nella sua città, un tempo a maggioranza musulmana, oggi a maggioranza serba. Sead racconta com’era la vita nel campo: cose già note dai libri di storia. Tuttavia, l’impatto è molto più dirompente, perché è proprio quest’uomo con il quale ora sto parlando che ha perso 27 kg a causa della dissenteria; è proprio quest’uomo che è stato costretto a vivere con un tozzo di pane e acqua delle pozzanghere; è proprio lui che è stato torturato crudelmente nel fisico e nell’anima. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato di dover ascoltare la testimonianza diretta di un sopravvissuto ai campi di concentramento. Ingenuamente credevamo che la storia, quella più indecente e sconcia, non potesse e non dovesse ripetersi. Il viaggio ci ha dimostrato come ci sbagliavamo, come il male e la sua banalità siano sempre pronti a ricomparire sulla scena da protagonisti, anche nel cuore dell’Europa civile, iper-evoluta, astrattamente tollerante.
Ma la parte più importante è la conclusione del suo racconto, quando dice: “Bisogna perdonare, ma non dimenticare. I responsabili dei crimini devono pagare le loro colpe secondo la legge. I miei figli li sto educando alla tolleranza e al rispetto, non all’odio.” Sono parole molto generose, prive di ogni sentimento di vendetta, piene di speranza e rivolte ad un futuro finalmente senza conflitti.
I giusti nel tempo del male
A Sarajevo, negli uffici della sua organizzazione non governativa incontriamo Svetlana Broz, nipote del Maresciallo Tito e autrice del libro “I giusti nel tempo del male” che raccoglie storie di altruismo, di solidarietà, di resistenza accadute durante gli anni della guerra in Bosnia, dove la Broz si era recata, come medico volontario, trasferendosi da Belgrado. Tuttora la dottoressa Broz vive a Sarajevo, con la sua organizzazione si occupa dell’educazione dei giovani e di favorire il dialogo e la convivenza tra le diverse componenti che vivono in Bosnia. Parlando dei tristi eventi del passato dice: “I media internazionali erano interessati solo al sangue, agli assassinii, alle atrocità. Ma anche durante la guerra esistevano persone che rifiutavano la violenza, la morte e si adoperavano per dare una mano, per soccorrere, per salvare chi soffriva, i perseguitati, le vittime designate.
Questi sono i giusti. E tutti sono in grado, se davvero lo vogliono, di fare scelte giuste, facendo appello al proprio senso civico, al proprio coraggio civile.” Poi parla della situazione politica attuale e la sua analisi è spietata: “La comunità internazionale, con gli accordi di Dayton, ha consentito la sopravvivenza dei partiti nazionalisti, che ancora oggi sono al governo e che furono i primi responsabili dello scoppio della guerra.
È come se in Germania, dopo la Seconda Guerra Mondiale, fossero stati lasciati al potere i nazisti.” Attraverso questa similitudine, capiamo un po’ meglio i motivi per cui il cammino verso una vera riconciliazione è ancora accidentato.
Emerge dalle parole della Broz tutta la responsabilità dell’establishment politico, nazionale e internazionale, incapace di fare scelte giuste e spesso cieco e sordo di fronte ai desideri, alle aspirazioni alla pace, alla libertà, al benessere dei cittadini.
La fiducia è necessaria
Milena è un’anziana signora di Srebrenica che si è fatta carico, con altri volontari, di riportare fiducia tra i suoi concittadini. Ha un bel sorriso, nonostante tutto, e una grande voglia di non arrendersi, di continuare a cercare quel terreno comune su cui ricostruire una convivenza possibile se, quanto prima, la cattiva politica si farà da parte. “Questo spazio in cui siamo l’abbiamo chiamato Casa della fiducia. Qui invitiamo le persone a parlare apertamente di quello che è successo in quegli anni, ad incontrarsi per cercare insieme di capire, di andare avanti, di riacquistare fiducia nel futuro. Per questo abbiamo creato dei laboratori per insegnare un mestiere ai giovani, per insegnare loro l’informatica, le lingue, affinché abbiano presto un lavoro e possano riprendere a vivere come prima. Non è facile, però, perché la gente è vittima della politica e si finisce sempre per parlare più dei morti che dei vivi.”
Voglio concludere con le parole di Drasko, un ragazzo serbo di Prijedor, che all’epoca della guerra aveva 19 anni e faceva il soldato: “È da quando è finita la guerra che mi chiedo come sia potuto accadere tutto quel caos. A volte penso che sia stato l’odio nazionalista che soffiava sulla paura della gente spingendola alla violenza; altre volte penso che la responsabilità sia dei paesi stranieri che volevano intervenire senza sapere nulla della Bosnia e di chi ci vive. Ma questo non è sufficiente a spiegare tutto, e io stesso non credo di capire fino in fondo come siano andate le cose.”
Riflettiamo: se non capisce lui che è stato protagonista di quegli avvenimenti, ce la faremo noi, all’epoca spettatori disattenti, oggi viaggiatori curiosi?
I luoghi
Del viaggio, insieme alle parole, rimangono i luoghi. Mostar, la città del ponte. Ci arriviamo di sera e la vediamo avvolta da luci soffuse, tagliata in due dalla Neretva e magicamente tenuta insieme dal ponte, lo Stari Most. Costruito nel 1566 dal genio e dalla bontà umana, aveva resistito alle insidie e all’usura del tempo ma non alla stupidità e alla disumanità della guerra. Distrutto nel novembre del ’93, noi l’abbiamo visto di nuovo lì, imponente e fiero, simbolo di unità e incontro, vittorioso ancora una volta sul vuoto e sull’odio. Ma a Mostar non c’è solo il ponte. A tredici anni dalla fine della guerra, a Mostar ci sono ancora tombe di musulmani, uccisi durante l’assedio, collocate in un parco pubblico. Meditate che questo è stato: mentre guardo quel parco e quelle lapidi, mi ritorna in mente questo verso, scritto a ricordo di altre tragedie ma che tutte le riassume.
Oriente e occidente insieme
Stolac è un piccolo centro a sud di Mostar, dove i segni della guerra sono ancora evidenti. Qui ci fermiamo per visitare una necropoli bogomila, risalente all’XI sec., e per conoscere qualcosa in più di questa setta eretica, il cui tratto caratteristico era il sincretismo. La specificità della Bosnia pre-guerra non era quella di saper conciliare e tener insieme elementi che per cultura, religione, origini sarebbero dovuti essere inconciliabili e separati? Potrebbe essere questa un’eredità del sincretismo bogomilo?
Sarajevo, un pezzo d’Oriente nel cuore dell’Occidente. Città martire per ciò che rappresentava, la possibilità, cioè, di vivere in pace, tutti insieme, senza distinzione di religione, di nazionalità, di etnia.
Chi arriva da Mostar, come noi, entra in città percorrendo un lungo e ampio viale. Sembra di arrivare in una qualsiasi città europea, moderna, finchè la nostra guida, Michele Nardelli dell’Osservatorio dei Balcani, ci informa che stiamo percorrendo il “viale dei cecchini”. Durante i tre anni e mezzo di assedio su questi alti edifici si annidavano i tiratori che sparavano su tutto ciò che si muoveva. Basta questo per spogliare quel luogo della sua apparente normalità e rivestirlo di altri significati, la fantasia si accende e fa materializzare immagini poco rassicuranti. Attraversiamo un ponte su cui due lapidi di metallo ricordano le prime due vittime del conflitto. Infine, passiamo vicino al ponte sul quale fu ucciso l’arciduca d’Austria con la moglie. In questi luoghi la storia è presente col suo pesante fardello, qui è nato ed è morto il XX secolo, come più volte ci fa notare Michele. Arriviamo alla Bascarsija, il quartiere vecchio della città: moschee e minareti, bazar con la loro merce per noi inusuale, bar e ristoranti tipici, tanta gente per strada, molte donne eleganti, altre meno, odori speziati di cibo, di caffè, di tè, musica orientaleggiante.
Mentre ceniamo, da un megafono sul minareto risuona la voce del muezzin: ci dicono che è registrata, ma è ugualmente suggestiva.
I segni della guerra
Arriviamo a Srebrenica al crepuscolo. La strada che percorriamo è fiancheggiata da case che recano eloquenti segni di violenza e distruzione. L’oscurità ormai incombente amplifica a dismisura il senso di orrore che nasce in ciascuno di noi. La guerra vista in tv tanti anni prima, tra noia e
indifferenza, si svela ai nostri occhi nella sua tragica attualità, e ci rende muti. Nelle immediate vicinanze della città, c’è il Memoriale di Potocari. Lo visitiamo in una mattina grigia, con l’animo già afflitto da quello che sembra, a tutti gli effetti, uno scenario di guerra ancora in corso. Una marea di lapidi bianche, tutte uguali, fluttua davanti ai nostri occhi velati di lacrime. Sono le lapidi dei musulmani, quasi tutti maschi, uccisi in quel lontano luglio del ’95.
Al momento se ne contano più di quattromila, ma aumentano ogni anno, man mano che altri corpi vengono scoperti e riconosciuti attraverso l’esame del DNA. Alla fine ammonteranno a più di ottomila. Mladic, Olic, Karadzic, fosse comuni, genocidio, stupri, incendi, profughi, pulizia etnica: immerso nel silenzio delle verdi colline circostanti, il memoriale sembra ripetere questo rosario doloroso, affinché nessuno dimentichi.
A Blagaj visitiamo la Tekija, una sorta di monastero in cui vivevano i dervisci, ai tempi dell’Impero Ottomano. Questo edificio fu costruito alcune centinaia di anni addietro sotto un’alta parete rocciosa, da cui sgorga la sorgente del fiume Buna. È un luogo molto frequentato, luogo di meditazione e preghiera, di pace e serenità.
È il luogo in cui fu promulgato l’editto del sultano Mehemet II, che, per la prima volta in Europa, era ispirato dai principi di amicizia e tolleranza verso altre religioni.
Le discussioni
E ancora, del viaggio rimangono le discussioni tra noi, 25 insegnanti di varie discipline e tre accompagnatori. Si è discusso di politica, dell’ottusità degli uomini che di essa si occupano, della loro incapacità di affrontare problematiche complesse attraverso soluzioni non necessariamente imposte dalle armi. Si è discusso delle cause del conflitto, poco chiare non solo per noi stranieri, ma anche per molti dei nostri interlocutori indigeni. Della paura, che scientificamente iniettata con la propaganda ideologica, induce le masse, quasi le costringe, ad odiare e uccidere persone in modo indistinto, primitivo. E inoltre, si è discusso della banalità del male, della necessità dell’elaborazione del conflitto per sperare in una riconciliazione duratura, della memoria comune, condivisa, del perdono. Si è discusso di come realizzare una cooperazione effettivamente produttiva, e non emergenziale, che abbia come fine ultimo non l’assistenza perpetua, ma la crescita autonoma dei territori coi quali si collabora.
Ciò che diremo ai nostri studenti
Infine, del viaggio rimane una più salda volontà di parlare alle nuove generazioni, che quotidianamente incontriamo nelle aule delle nostre scuole, delle vicende storiche con le quali siamo venuti a contatto, ancora così poco conosciute e analizzate, nonostante la loro vicinanza, non solo temporale, ma anche geografica. Tali vicende possono insegnare anche a noi molte cose, a partire dal tema complesso della convivenza pacifica, della convivenza possibile con chi è altro da noi. Per secoli, infatti, in Bosnia essa si è realizzata, finché non è stata minata da rozze ideologie e dai loro rozzi fautori. Rimane l’intenzione di introdurre a scuola, come spunto di riflessione, un argomento che raramente è presente nelle nostre lezioni e la cui importanza, oltre ad essere il filo conduttore del libro di Svetlana Broz, è enorme, fondamentale: il coraggio civile.
Saper dire di no alla violenza, alle false ideologie, alla paura irrazionale e richiamarsi invece ad idee di tolleranza, di solidarietà, di fratellanza.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto: magari non in latino, ma dobbiamo insegnare ai nostri studenti che facciamo parte.