di Susanna Ronconi.
Da Sighisoara, la meta è raggiungere prima di sera Gura Humorului. È un tratto lungo, che porta dalla Transilvania alla Bucovina meridionale, in Moldavia, regione divisa tra Romania e Ucraina dalle mutevoli e ballerine linee tirate sulla carta del mondo dalle guerre e dagli sconvolgimenti della politica del secolo breve. L’attesa è molta, sappiamo di villaggi rurali intatti e di monasteri dipinti, di un fiume che scorre lento sul fondovalle e di boschi a perdita d’occhio. La stanchezza del viaggio è attutita da molte tappe su scenari mutevoli e cangianti.
Inaspettato, sulla strada, un interludio psichedelico. La miniera di salgemma di Praid, non più in funzione, oggi luogo terapeutico: dicono che a star dentro qualche ora alle sue grotte dalle volte altissime e dalle pareti luccicanti, i polmoni ne abbiano giovamento. Non c’è traccia dei mitici minatori romeni, il blocco proletario che non voleva perdere il regime, se non nell’abbigliamento di un giovane con la lampadina sulla testa che vende blocchi di cristalli purissimi a cinque euro. Nella miniera si entra con un bus doppio affollato di una umanità che potrebbe star bene anche a Rimini, che imbocca a tutta velocità un tunnel buio in discesa, con le pareti lucide che sfiorano le fiancate e i finestrini. Ti aspetti qualcosa di simile a qualcosa che hai già visto: Postumia, la Grotta del Gigante nelle Marche, oppure quella del Carso triestino, o qualche miniera in disuso, nelle valli trentine o piemontesi, con quel fascino un po’ sinistro e un po’ nostalgico delle opere umane in disuso, quel buio, quel silenzio. Giù dal bus e una lunga teoria di scalini di legno in discesa, verso il ventre della terra. Alcune grotte si aprono una dopo l’altra, sono altissime, sono vastissime, hanno un pavimento levigato e lucido, pareti a tratti luccicanti. Ma non c’è silenzio né struggente nostalgia del proletariato d’altri tempi. E’ una città, una città affollata di abitanti, migliaia di persone. C’è la grotta-disneyland, con i giochi colorati di gomma gonfiata, scivoli, castelli, tappeti elastici. Ci sono schermi televisivi lcd inchiodati alle pareti di sale che proiettano partite di calcio sulle teste di centinaia di persone-protei seduti su lunghe panche da bocciofila. Ci sono lunghe teorie di tavolini addossate alle pareti con coppie di ogni età e sesso che giocano a dama e a scacchi. C’è un bar costruito in legno stile Texas. C’è una chiesa con altare, panche e statue di sale dei santi e della madonna, e un calendario con gli orari delle messe. C’è uno struscio (un liston, si dice in veneto) di centinaia di persone che passeggiano, si incontrano, si salutano, chiacchierano, e bambini e genitori che giocano nel bel mezzo delle grotte a volano, a palla, a tennis. In certi tratti, devi farti largo.
Restiamo per un attimo allibiti. Una sensazione come di straniamento, da mondo parallelo. Come per un fungo amazzonico o un’agave psicotropa. George sembra tranquillo, noi siamo stupiti, divertiti, spiazzati e insieme incapaci di riprenderci. Potrebbe essere un mondo post-catastrofe, penso. Un mondo dopo l’apocalisse in cui – al contrario di quanto avviene in molti romanzi – l’uomo non si fa lupo, ma riorganizza una vita solidale. Una eccezione romena al pessimismo globale sul “dopo”, una lezione a Mc Carthy, quello de La strada. Lo meriterebbe, la miniera, un romanzo post-catastrofico.
Miniera di Praid, Romania, anno 2008, l’incipit:
Il giorno non arrivava. L’esplosione aveva oscurato l’orizzonte, il sole restava chiuso nella sua nuova notte perenne. George sentiva il freddo penetrargli nelle ossa, aveva dato la sua giacca a Elisa, quando l’aveva vista così, accucciata contro il muro di pietra, tremante. Traiano non tornava, aveva voluto andare oltre il fiume, a cercare del cibo, chissà, una patata rimasta nel campo, un peperone giallo salvato nell’orto, o magari, con un colpo di fortuna, una gallina sperduta. Improvvisamente, lo vede, arriva di corsa, agita le braccia, ansimando. Ha una borsa di stoffa a tracolla, la esibisce con orgoglio e risata da guascone: “Mele, mais, salame e formaggio di capra… eh, che dici?” “Ma dove “ balbetta George, che da più di un mese non incontra un essere umano diverso da sua moglie e dal suo amico, “Dove?” “Andiamo – dice Traiano – sveglia Elisa. Andiamo alla miniera di Praid. C’è gente lì, si sono organizzati”. “Ma chi dice che ci faranno entrare, magari” “Andiamo, ti dico c’è Livio, il sassofonista di Brashov, è un amico”. George scuote con dolcezza Elisa, lei si sveglia con un piccolo sussulto, come un animaletto inseguito che non può permettersi di sognare.
Boschi a non finire, Transilvania-la-verde corre verso il suo confine, prima della Moldavia, il Lago Rosso e le gole di Bicaz. Boschi di conifere, un lago non diverso dai nostri laghi alpini, non fosse per quei tronchi impiantati sul fondo, che affiorano come una selva rovesciata. C’è molta gente, la poesia del luogo si perde, lo immagino in ottobre, col silenzio e i colori dell’autunno. Se la poesia si perde, rimangono però i mici, polpettine grigliate e profumate: fuochi e graticole a perdita d’occhio in stand affollati, buon profumo di carne, birre, ora non so più se ancora Ciuc o già Ursus, non amo la birra e non ho imparato la sua geografia romena. Così ci concediamo una festa popolare sulle rive del lago. I mici sono piccanti, l’aria tersa, con la coda dell’occhio vediamo la strada che comincia a salire.
Le gole di Bicaz sono un valico montuoso con le pareti a strapiombo sulla strada, che si incunea e sale. Le gole si aprono su uno scenario di boschi a perdita d’occhio, costellati dell’offerta ai bordi della strada di mirtilli, funghi, nocciole, che via via si fa sempre più aperto, sino a diventare collina e poi campagna, piana e intensamente coltivata. Sulla strada, l’avamposto dei monasteri che riempiranno le prossime ore, Agapia. E’ quasi un villaggio, perché fuori dalle mura del monastero si assiepano piccole case di legno bianco, immerse in giardini fioriti, divise da stradine di terra bianca dove passeggiano padroni galli e galline. Le monache ortodosse, chiuse nei lunghi abiti neri dai cappellini a tamburello coperti a loro volta dal velo, abitano anche le casette di legno, via via acquisite dai contadini. Il monastero ha una chiesa centrale, silenziosa e dorata, dove si celebrano riti per me misteriosi e inquietanti, con le suore che hanno una gestualità continua, ripetitiva e individualista, il pope che appare e scompare, un altare nascosto, la ritualità del velo che si apre e che si chiude, e una intimità esclusiva e celata del prete con dio, fedeli che si inchinano con movenze islamiche, teche e scrigni che espongono alla sguardo e alla preghiera reliquie che non identifichiamo, e donne vecchissime, con un secolo addosso, che si confessano con un pope che sembra ancor più vecchio di loro, il volto solcato da mille rughe e una strana fissità, e si confessano senza alcuna protezione, così, addossati su un lato della chiesa. I muri sono affrescati di blu, di oro e di rosso, l’atmosfera è intima, raccolta, magica. Il monastero, bianco di calce, è fatto di una serie di alloggi, con terrazzini e balconate fiorite, senza soluzione di continuità tutt’attorno alla chiesa e al cortile, come una corona. Le suore hanno una tessitura che è famosa in tutta la Romania: grandi telai verticali, sopra, appese, le matasse di lana colorata, grezza, che ad annusarla sa di pecora, e mi ricorda quella che fino agli anni ’60 si trovava in Cadore, in una piccola filanda sotto casa mia, costruita a ridosso del torrente dove, fino a subito dopo la guerra, girava la ruota di legno di un mulino. Questo viaggio, a tratti, mi catapulta indietro nel tempo, nella mia infanzia, quando i nostri villaggi di montagna erano intatti come questi villaggi romeni. Con l’odore della stalla, con le strade sterrate dei paesi, con la lana ruvida al tatto, e odorosa. Sui telai, le spole, ora ferme, domani mattina riprenderanno a correre a destra e a sinistra, disegnando uccelli, e fiori e geometrie fantastiche.
Siamo stanchi, adesso, e abbiamo voglia di arrivare. C’è ancora strada, colline basse, pianura, campi dove il grano ha lasciato il posto alle stoppie secche, il granturco è già cresciuto, e si alterna ai girasoli. I villaggi si dipanano lungo la strada, le cicogne fanno i nidi sui pali della luce. A tratti, qualche mostro industriale giace ai bordi della campagna, tetro e fuori mercato, accartocciato in attesa di chissà quale destino. Il fiume Moldova scorre lento, costeggiato dalla ferrovia che taglia le strade con poco preavviso, ma George lo sa, spinge sui freni, attraversiamo i binari saltellando e guardando a destra e a sinistra, non si mai. Non dev’essere un gran che, la rete ferroviaria: su mille attraversamenti dei binari, solo due volte è capitato di vedere un treno. Di nuovo colline e un orizzonte verde, Gura Humorului, la porta dei monasteri dipinti. Lasciamo il centro abitato, seguiamo il fiume verso la casa dove ci aspetta Silvia, la moglie del pope. Incontriamo tanti carretti tirati da cavalli grandi e pazienti, carichi di fieno e di donne e bambini, e intanto il cielo si fa violetto. Non si può dire che Ceausescu abbia lavorato per la meccanizzazione dell’agricoltura come Lenin aveva fatto per l’elettrificazione della Russia, almeno non a prima vista.
La casa in cui Silvia – eccola, un’altra donna che vive il suo tempo presente! – ci accoglie è moderna e spaziosa, con un giardino, un albero da frutto davanti alla porta, una grande cucina, tante stanze che si affacciano su un ballatoio interno. Si lasciano le scarpe fuori e ci sono pantofole di panno per tutti. Silvia ride e parla forte, è allegra e materna. Noi siamo stanchi, ma la sua cena è un balsamo, una cena che finisce con una crema dolce e un liquore di mirtilli fatto in casa che va giù che è una bellezza (anche troppo). Per la sera seguente promette anche di più, e l’incontro con il marito, il pope del paese a cui alcuni di noi vogliono chiedere qualcosa sulla chiesa ortodossa. Non abbiamo sonno, però: due passi lungo la strada fino al bar del paese e alla chiesa, nel buio che a tratti è denso e solo qua e là tagliato da un lampione. Sui lati, case basse, giardini, fiori, silenzio, qualche cane che abbaia, dal bar poche voci maschili dietro la siepe discutono come in tutti i bar di paese del mondo. Un cane comincia a seguire Eugenio, si fa accarezzare e non lo molla fino a casa di Silvia. Entra in giardino e non ha alcuna intenzione di andarsene.
I monasteri dipinti di Humor, Voronet e Moldovita meritano la loro fama, sono bellissimi e unici. Le pitture sulle pareti esterne hanno colori intensi, che connotano ogni monastero con tonalità diverse, qui domina il blu, lì il verde, là il rosso. E’ come se Giotto e la sua scuola fossero passati di qui, e stanchi del chiuso della cappella degli Scrovegni, avessero portato i loro pennelli e i loro ponteggi all’aperto e alla luce. I monasteri sono circondati da giardini fioriti, con pozzi coperti da un tetto di legno e chiusi da mura con una porta di legno intarsiato. Le pitture hanno temi ricorrenti, san Giorgio e il drago, la madonna, il giudizio universale, con i salvati tra gli angeli e i dannati che varcano il fiume rosso dell’inferno inseguiti e tormentati da orribili diavoli. Tra le folle dei dannati, ricorrono turchi, ebrei, armeni, i “nemici”, ognuno con i suoi costumi, e copricapi e tratti del volto. E’ un mondo in guerra, un mondo minacciato e che minaccia. I monasteri, del resto, risalgono proprio all’epoca della minaccia turca, e avevano una funzione sociale, rassicurante e pedagogica. I quadri rappresentati sulle pareti erano come un grande libro che tutti potevano leggere e capire, scritto per sancire una identità e per dare speranza, per compattare contro l’aggressione. A interrompere il rischio della ripetitività – che un po’ è come in Toscana con le madonne del trecento, stupende ma alla centesima rischi di non “vederle” più – a Moldovita arriva suor Tatiana, altro volto femminile da non scordare. Mezza età, piglio deciso, occhi verdi sempre mobili, una bacchetta in mano e un approccio da insegnante di liceo in mezzo a un branco di studenti smidollati, nel suo buon italiano imparato stando con i turisti, Tatiana ci guida in modo autoritario sì, ma anche naturalmente autorevole e colto, tra un intreccio mirabile di significati nascosti e metafore che legano un quadro dell’affresco all’altro, una storia parallela di simbolismi complessi, mistici e segreti, legati dalla figura della madonna, un femminile – dalla “mandorla” che include il cristo alla caverna – che restituisce speranza a quel mondo di guerra e di minaccia, di peccato e di peccatori. Tatiana ci dice come un testo, che qualcuno potrebbe leggere come un gran fumettone di qualche secolo fa, nasconda teologia, mito, misticismo, storia, filosofia e pietas per il destino umano. “La finestra si sporca”, dice indicando con un segno circolare il suo busto, dal cuore allo stomaco e al fegato, e agitando la bacchetta da maestra spiega che il peccato entra in noi quando ci affacciamo al mondo, ma noi stessi abbiamo la facoltà di ripulirla. Tradotto nel mio linguaggio ateo: possiamo presidiare noi stessi, la nostra integrità. Abbiamo la possibilità di farlo. Così, tranquillizzata, ringrazio Tatiana anche per questo.
Tra un misticismo e l’altro, c’è anche una pausa pranzo deliziosa, tra un monastero e l’altro. Una locanda che si chiama Halta Lu Lului, si presenta come una piccola stazione ferroviaria, c’è anche un treno in miniatura, ha tavoli ombreggiati, un grande prato davanti e una terribile sala all’interno piena di animali imbalsamati, che evitiamo con cura. Qui, nonostante siano trenta gradi e passa, facciamo la conoscenza della tochitura moldoveneasca, sponsorizzata con passione da George, polenta, formaggio piccante di capra, un mix di carne di maiale e salsicce e – come se proprio non bastasse – un uovo fritto. Meravigliosa e letale.
Tornando a Gura Humorului, ci aspetta una serata intensa. Vorrei dire, quasi mondana. Primo, l’incontro con Rodica e Dimitru. Lui, un vecchio contadino dall’aria nobile e le mani nodose, bacia la mano a noi signore con un lieve inchino, in segno di rispetto. E’ silenzioso e sorride. Lei, massiccia e pratica – ah, un’altra donna del nuovo millennio che sa cavalcare l’onda con occhio al futuro – cura la stalla, fa i formaggi e organizza il suo bed&breakfast. La loro casa è ai margini del paese, ha una piccola stalla, un fienile, camere in affitto e un salotto “buono” dove Rodica “sequestra” noi donne per un rito che un po’ ci fa ridere e un po’ ci imbarazza. Veste due di noi (anch’io sono tra le prescelte) con gli abiti della festa, una gonna nera fermata in vita da una fascia colorata e una camicetta scollata e a sbuffo. Ridiamo e ci facciamo fotografare dalle due “scampate”, forse dovremmo comprare qualcosa ma davvero sarebbe dura utilizzare quegli abiti nelle nostre giornate metropolitane. Rodica non insiste, il gioco finisce. In compenso assaggio il suo formaggio, con tutti i sapori dell’erba e del fieno, e con gli altri partiamo per un breve tour con Dimitru, il suo cavallo e il suo carretto. Dopo una breve analisi della situazione, il contadino-nobile saggiamente aggiunge un secondo cavallo: siamo in tanti e nemmeno molto esili. Per le stradine del villaggio, chi torna dalla campagna e sul carretto ci sta ogni santo giorno, perché nessuno qui ha meccanizzato niente, ci saluta ridendo, e forse pensando che siamo un po’ scemi. Ma non importa, noi stiamo bene, il tramonto è viola e almeno una volta, durante questo viaggio, la stupidera del turista ci compete.
A cena da Silvia – peperoni imbottiti, quelli di qui, che sono gialli e piccoli e profumati – c’è anche il pope, in borghese, e alcuni vicini di casa, due donne e un ragazzo, Livio. Così si chiacchiera, affaticando George che deve tradurre tutto, ma può contare sull’aiuto di Livio, che fa su e giù con Pavia, un migrante pendolare e interinale. Livio parla bene italiano, è ingegnere alimentare e a Pavia fa lavori di vario genere, certo non il suo. Ma, dice, fare il mio mestiere qui mi farebbe guadagnare 500 euro al mese, là guadagno di più. Così, su e giù come un matto in macchina attraverso i Balcani, cinque o sei volte l’anno, tutta una tirata. Le due donne – una è sua madre – fanno le farmaciste veterinarie, hanno occhi verdi luminosi e i capelli freschi di parrucchiere.
Quando George tira fuori la fisarmonica, si tirano da parte le sedie, loro ballano e cantano, noi siamo un po’ più timidi. C’è aria di paese e di semplicità. Silvia scherza a voce alta, parole in italiano, parolacce, le solite che sanno tutti gli stranieri, e se la ride sonoramente, un divertimento da bambina. Il pope, suo marito, la guarda tra il divertito e il perplesso: dev’essere un gioco delle parti che nella coppia di lunga data va avanti da decenni. Anche il pope, a serata inoltrata, si scioglie. Racconta barzellette, se da noi si dice “ci sono un italiano un francese e un inglese” lì, a casa di Silvia, si esordisce con “ci sono un rabbino, un prete cattolico e un pope ortodosso”, e giù a ridere. Si discute anche di differenze tra i riti cattolico e ortodosso, si capisce che le differenze di tipo teologico non sono molte, qualcuno dice “però voi potete sposarvi, è una buona cosa”, ma il pope fa cenni con le mani, non è detto, dice, che sia una buona cosa, lui la moglie se la deve tenere una vita, mentre una perpetua la si può licenziare. E se la ride di cuore, con Silvia che fa a gara per ridere più forte. E anche noi, grazie al liquore di mirtillo, il cui livello, nella bottiglia di cristallo, è sceso paurosamente. La mattina seguente, il pope passa a salutarci, ha il vestito da prete, e sembra un altro, con una certa aura di autorevolezza, si pensa che, così, non potrebbe mai dire c’erano un rabbino, un. Silvia sta per piangere, dice che vorrebbe che Eugenio fosse suo figlio, lo vorrebbe adottare e tenere con sé.