di Susanna Ronconi.
La prima persona che incontro, al mio ritorno dal viaggio, è Cora, che gestisce la gelateria sotto casa, per me i migliori gelati siciliani di Torino. Sei tornata, dice, faccia stanca da chi lavora soprattutto in agosto e soprattutto fino alle ore piccole e fa le ferie in gennaio. Sono stata in Romania, dico. Leggera sorpresa. Bello? fa lei. Sì, bello, faccio io, e poi ho incontrato delle donne non so, è la prima cosa che mi è venuta in mente, prima dei monasteri dipinti e delle rocche sassoni e delle cicogne e dei villaggi di campagna come i nostri cinquant’anni fa. Ah le romene, dice lei, quelle sì che sono donne. Sì, davvero, dico, simpatiche e pratiche. Belle facce, dico, ho avuto come la sensazione che siano loro, a mandare avanti la baracca.
Mi è venuto in mente durante il viaggio, mano a mano che si allungava la collana dei volti di donna operosa e intraprendente, incontrando Maria di Sibiu, o Silvia, la moglie del pope, e la sua casa per le vacanze a Gura Humorului, oppure Sophia e il suo motel da camionisti che starebbe benissimo nei quadri di un novello Hopper romeno. Oppure Rodica, che esce dalla stalla e ti imbastisce una strategia di marketing impacchettandoti, nel suo salotto buono, nei costumi della festa ricamati da lei, facendoti giocare e aspettando poi il tuo acquisto. O delle due donne – madre e figlia – che a Sibiel dipingono le icone di vetro, colorate e pagane, e ti accolgono con un bicchiere di grappa e un dolcetto, non importa a quale ora del giorno. Oppure Elisa, che suona con George, suo marito e nostra guida, ai matrimoni con bella voce da canto popolare e sonorità un po’ slava e un po’ mediterranea. Mi dice in buon italiano: a me piacciono gli italiani, siete meglio di noi, noi siamo volgari e adesso pensiamo solo a far soldi.
Vorrei dirle che il denaro e il mercato sono anche da noi gli dei dominanti, poeti santi e navigatori sono in declino, e che inglesi e tedeschi ci dicono di tutto, dandoci la palma dei più cafoni del mondo. Ma capisco cosa vuol dire. La percezione di un paese in cui si corre verso una ricchezza possibile e disordinata, è netta. Nulla di nuovo, fa parte di ciò che sappiamo e che immaginiamo su quel tappo che è saltato, nei paesi dell’est compressi dai regimi del socialismo reale, e che con una velocità impressionante hanno sbandato in tutte le diverse direzioni del capitalismo rapace, deregolato. Un mix di creatività, arrembaggio, intelligenza operosa, fretta, imprenditorialità, miseria, rischio e sogno. Si respira nell’aria che c’è chi corre e chi è al palo, che le garanzie sociali sono evanescenti, che tutto è in movimento, e che, insieme alle sorti magnifiche e progressive dello sviluppo, qualcosa già rischia di degradarsi per sempre.
Le città e le campagne sono universi ancora separati, le città hanno gioielli medioevali e barocchi nei centri storici, risanati dove sono arrivati i fondi europei, patrimoni culturali ben tenuti e localini trendy, e brutte periferie – tra eredità del regime e moderno arrembaggio; e le campagne hanno villaggi a nastro sulla strada sconnessa con case curate e fiorite, carri con i cavalli, scenari verdi ancora intatti, un equilibrio che aspetta di sapere cosa gli capiterà.
Anche se non c’è nella bibliografia di Eugenio, perché in effetti non c’entra nulla, a me viene in mente di accostare a Magris e Rumiz che leggiamo durante il viaggio, anche Gianni Celati, la bassa padana verso il delta del Po, fatta di struggenti pioppeti e capannoni del miracolo nord est, di antichi tratturi bordati di sambuco e cascine seicentesche, e centri commerciali grandi come città, di osterie dove non una sedia è stata spostata dai primi del novecento e mc donalds ai bordi dei raccordi anulari.
In un moto di tenerezza per questo paese che sto appena ora intuendo, mi viene da pronunciare una preghiera, laica e muta, perché un qualche dio degli uomini metta una mano sulla testa a queste terre e non ne faccia un deserto post-tutto. Il Danubio – che in questo viaggio non abbiamo incontrato, riservandoci un sogno – con la velocità della crisi balcanica ha sorpassato il Po, inghiottendo i veleni della guerra, gareggiando in inquinamento mortale con Eridano, e portando a spasso quella storia sinistra di fine secolo verso un Delta già sfregiato. Ma, come dicono Magris e Celati, questi fiumi-patriarchi resistono a tutto, e non cedono la loro poesia, sia che si carichino dei residui della pianura industriale, sia che finiscano in un niente dopo un corso poderoso.
Comunque, ha ragione Elisa, a preoccuparsi. Servono uomini e donne e progetti che sappiano sognare sì, ma anche valutare il rischio.
Le regioni che percorriamo e conosciamo sono Transilvania e Bucovina, che fa parte della Moldavia. Attraversiamo anche un tratto di Valacchia, da Bucarest al nostro arrivo, e, verso la fine del viaggio, un lungo tratto della Moldavia del sud. Gli scenari sono dissonanti: là, dolcezza di boschi, colline e monti, torrenti puliti e armonia di villaggi e monasteri dipinti, equilibri mantenuti, anche se sospesi come quando si trattiene il fiato, tra paesaggio intatto e modernità accumulata in fretta; qui, in Moldavia meridionale, a perdita d’occhio una pianura gialla di stoppie del grano mietuto, si pensa all’Ucraina, o alla Puzta ungherese, al fascino sottile di un nulla aperto sull’orizzonte, cittadine dove qualche equilibrio si è già perduto, forse più povertà. Non una povertà statistica, magari i numeri direbbero il contrario; ma è che nei paesi rurali che possono contare su un bosco di querce e faggi secolari, su un balcone fiorito di gerani, su un orto lussureggiante, su una stalla e su una mandria, su mirtilli grossi come olive e funghi come se piovesse, su formaggi dal profumo intenso, su un bar dove vanno tutti, su case con le porte mai sbarrate, insomma, è come se i conti tornassero meglio.
In Transilvania e Bucovina la natura è dolce e produttiva insieme, selvaggia e domestica, ancora magia dell’equilibrio. I villaggi rurali, disseminati ovunque ma con una densità che lascia al bosco lunghi tratti di silenzio e scarsa presenza umana, hanno quella produttività in armonia con l’ambiente che era anche nostra, negli anni ’50. Buttando l’occhio, dentro la stalla delle mucche di Rodica e Dimitru, a Gura Humorului, e nel loro salotto buono, mi è tornato alla mente il profumo delle Dolomiti, quando a sei anni avevo il compito di andare a prendere il latte con una gamella di alluminio con il manico a mezzo arco, in una casa antica dove una mucca, una sola, manteneva tutto il paese e anche i villeggianti. Lì è così, e anche i carri tornano carichi di fieno, tirati da cavalli pazienti. Sul piccolo monte di fieno ondeggiano paurosamente donne e bambini. Lungo le strade, sul ciglio polveroso, ragazze e vecchi posano secchi di plastica pieni di mirtilli e di porcini, a volte anche di nocciole. Alle spalle, a seconda dell’altitudine, boschi cedui tondeggianti e ombrelli a forma di nuvole verdi, oppure, più in alto, aguzzi e svettanti di pini alti come torri. I cieli sono come quelli del Tiziano, con nuvole ampie e vaporose messe con arte in contrasto con lo sfondo blu.
Le strade sono a buche e sconnessioni. Il pulmino di George ha buone sospensioni, e poi lui sa sempre per tempo quando frenare con decisione. Le strade sono piene di TIR, ti fai l’idea che nel paese circolino come impazzite milioni di merci diverse, che vadano di qua e di là come in un flipper gigante, ballonzolando sull’asfalto butterato. Da Curtea de Arges, prima tappa, ancora in Valacchia, a Sibiu-la-bella, pezzo di Germania medievale e rinascimentale catapultata qui dalle migrazioni dei sassoni, dopo una visita al piccolo monastero di Cozia, prima avanguardia di una serie di luoghi poetici e mistici, ci fermiamo a mangiare on the road. In senso proprio: una trattoria da camionisti – varrà il detto italiano, dove ci sono camionisti si mangia bene? – affacciata su un fiume biondo di terra e dalle sponde verdissime, il tavolo a mezzo metro dalla strada dove si incrociano a velocità sostenuta TIR di tutti i colori, provenienze e carichi. La casa è un po’ finita e un po’ no, nell’angolo casse della mitica birra Ciuc, il nome ci fa ridere, la colonna sonora dei nastri romeni e zingari di George ancora nelle orecchie. Parliamo tra uno spiedino e l’altro – sì, anche qui vale il detto- e tra un TIR e l’altro. Bene, mi dico con una allegria nel cuore, siamo dentro “Gatto nero e gatto bianco”, siamo arrivati a destinazione. Resta un breve video, girato con il cellulare, una manciata di secondi con noi, il tavolo, la birra Ciuc, lo spiedino e dietro un gran via vai di camion dai colori sgargianti.
Fine prima parte