Appunti di viaggio. Cinque anni dopo
Puntata 6. “Ratni profiteri”. Parole come pietre.
Mentre rientro in Italia mi arriva un messaggio: “Sono tornato dalla Bosnia domenica” mi scrive Jovan e aggiunge “Ratni profiteri non vedono l’ora per cominciare una nuova guerra”. “Ratni profiteri” sono i profittatori di guerra e stanno ad indicare una chiave di lettura rispetto a ciò che è accaduto nella vecchia Jugoslavia all’inizio degli anni ’90. Jovan è un profugo di guerra che vive e lavora in Trentino, a Borgo Valsugana. Siamo diventati amici, abbiamo più o meno la stessa età e spesso ci scambiamo senza infingimenti le nostre sensazioni su quel che resta del paese che è stato costretto a lasciare quasi vent’anni fa. Per questo, le sue parole mi suonano come pietre.
Non mi sono mai stancato di dire, nel corso di innumerevoli conferenze, che la guerra che ha dilaniato i Balcani era ascrivibile alla postmodernità. Niente a che fare con un conflitto di natura arcaica, etnico o religioso, anche se le simbologie ci potevano portare su questa strada. La guerra era in realtà un contesto di massima deregolazione, funzionale alla finanziarizzazione dell’economia e all’arricchimento di una nomenclatura che voleva succedere a se stessa.
Uno sguardo incompreso. Non lo si è capito in quelle terre dilaniate, in assenza di processi di elaborazione del conflitto. Come non lo si è capito nel resto d’Europa, per la rimozione verso un conflitto che non rientrava nelle vecchie categorie, per l’approccio superficiale della comunità internazionale, per la “banalità del bene”, ovvero per quella logica emergenziale (e in buona sostanza assistenziale) di molta parte della solidarietà e della cooperazione internazionale.
E se i segni della guerra sulle case lentamente scompaiono, questi sono indelebili nell’animo delle persone. Nel dopoguerra, i partiti e i media hanno coltivato una narrazione degli avvenimenti ascrivendo ogni contraddizione alla responsabilità degli altri, alimentando l’inganno.
Abbiamo provato a svelarlo, questo inganno. L’azione dell’Osservatorio Balcani Caucaso, il lavoro di molte persone che nella cooperazione hanno cercato di proporre uno sguardo diverso su ciò che era accaduto, le pagine scritte… ma – lo dico con il rammarico di chi si sente inascoltato – era più semplice accreditare una lettura stereotipata.
La prospettiva europea rappresentava sin dall’inizio l’altra chiave per cambiare il corso degli avvenimenti, ma prima sono prevalsi gli interessi nazionali (e ciascuno ha cercato di trarre profitto dallo sgretolarsi di un grande paese) e poi è stata l’Europa stessa (e forse anche per questa sua incapacità di leggere il proprio tempo) ad essere messa in discussione.
Così oggi nei Balcani, quando si parla di Europa, si sorride. Un sorriso insieme amaro e ironico. Amaro perché siamo nel suo cuore misconosciuto, ironico perché – come si dice in Bosnia Erzegovina – si entrerà in Europa quando questa non ci sarà più. E in queste terre, quanto a ironia, non si è secondi a nessuno.
Sulla via del ritorno attraverso luoghi conosciuti, Kraljevo (dove la comunità trentina interviene da ormai dieci anni), Kragujevac (la città della Zastava, che oltre alla Fiat produce armi per conto della Nato), Smederevo (le ciminiere del più grande colosso dell’acciaio ancora fumano, laddove doveva sorgere – come si racconta in un aneddoto sul vecchio regime – una grande coltivazione di uva, grožde in serbocroato, ma che Tito, ormai vecchio e sordo, capì gvožge, acciaio, e così nacque uno dei simboli del delirio fabbrichista), Belgrado (che nel gran caldo sonnecchia, come sa fare quella grande capitale).
Arriviamo a Vukovar, ma la città martire (che i nazionalisti non volevano ricostruire perché rimanesse a monito dell’aggressività dei nemici) si è lasciata alle spalle le stimmate piuttosto scomode di un altro imbroglio, quando i due signori della guerra (Tudjman e Milosevic) giocavano disgraziatamente sulla pelle dei suoi abitanti.
Il Danubio scorre, incurante della stupidità. Un vecchio albero bruciato di fronte al Gradski Muzej ci racconta che vent’anni fa qui c’è stata una guerra fra le più belluine che il Novecento ci abbia consegnato. Di cui non si è capito un fico secco. E che, proprio per questo, non è ancora finita.