Appunti di viaggio. Cinque anni dopo
Puntata 5. Nella quiete di Potočari, quelle lapidi inascoltate
Ho un ricordo nitido di quel luglio del 1995, quando i soldati di Ratko Mladić presero Srebrenica e, dopo aver separato donne e uomini, diedero vita al massacro di migliaia di bosgnacchi che in quella città avevano cercato la protezione delle Nazioni Unite.
Le notizie, in quel tempo, erano frammentarie, eppure viva era la percezione che qualcosa di terrificante stava accadendo in quella guerra senza fine. “Non dovevano esserci testimoni” raccontano le testimonianze raccolte dal Tribunale penale internazionale de L’Aja, tanto che per mesi il genocidio di Srebrenica venne negato, nonostante la denuncia dei famigliari delle vittime di cui si erano perse le tracce.
A Trento, in Piazza Cesare Battisti, proprio in quei giorni organizzammo la Tenda per la Pace dedicata ad Alex Langer, un presidio permanente che proseguì per tutta l’estate allo scopo di tenere viva l’attenzione verso una guerra che si svolgeva nell’indifferenza generale nel cuore dell’Europa. Ricordo come fossero accese le discussioni se e come la comunità internazionale dovesse intervenire per mettere fine ai massacri.
Forse per capirne di più, forse per essere più vicini a questa tragedia, con Gabriella, Alberto e Cristiana decidemmo ai primi di agosto di fare rotta verso i Balcani e, aggirando i confini della guerra, andammo in Romania, alla scoperta di un paese alle prese con i fantasmi del vecchio regime deposto da un colpo di stato chiamato rivoluzione. Da lì seguimmo un’altra tragedia, quella dell'”Operazione tempesta” che l’esercito di Tudjman (con il sostegno logistico della Nato) portò alla conquista (e alla pulizia etnica) della Kraijna e della Slavonia, nonché all’esodo di duecentomila persone, questa volta di nazionalità serba. Finirono nei campi profughi della Republika Srpska e della Serbia e lì dimenticati per anni.
Ora siamo qui, a Srebrenica, nel memoriale di Potoćari dove si ricordano le 8.372 vittime del primo genocidio in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. In questo luogo della memoria, che nulla concede alla retorica, si avverte una grande quiete. Quasi tutti i miei compagni di viaggio sono qui per la prima volta e il loro sguardo appare smarrito di fronte a questo mare di lapidi bianche. Sono tutte uguali, cambia solo il nome a cui sono riconducibili quei poveri resti ritrovati dopo anni nelle fosse comuni e la data di nascita. Nella loro uniformità e nell’allineamento perfetto, raccontano la comunità di destino delle tante vite, ciascuna diversa dall’altra, che in quel luglio vennero spezzate grazie alla ferocia dei miliziani serbi e all’ipocrisia di una comunità internazionale che mise a protezione di migliaia di profughi centocinquanta ragazzotti olandesi che, nelle rare immagini di quei giorni, sembravano delle comparse imbarazzate, impaurite e talvolta conniventi, come quando brindavano a rakija con i responsabili della mattanza.
E’ venerdì, giorno di preghiera per i mussulmani. Nella moschea senza pareti del memoriale, donne e uomini prevalentemente anziani ricordano i loro cari, mentre la cittadina di Srebrenica cerca di ritornare, almeno nell’esteriorità degli edifici, ad una improbabile normalità. Perché dall’incubo si uscirà solo quando le persone sapranno raccontare una sola narrazione. Mentre invece quel che avviene, qui più che altrove, è il rinchiudersi in un dolore ancora non riconosciuto dall’altro.
Siamo a Srebrenica e sappiamo come sono andate le cose, chi sono le vittime e chi sono i carnefici. L’elaborazione del conflitto non è un generico appello alla riconciliazione, né tanto meno all’oblio. Ma su questo lavoro chi ha saputo investire?
Chi allora ha rivolto il proprio sguardo altrove, chi non ha compreso che nella guerra degli anni ’90 in gioco era l’Europa, chi non ha ancora capito che l’Europa si fa o si disfa nei Balcani… per costoro lo straordinario lavoro che la comunità trentina ha messo in campo verso l’Europa di mezzo (e che ci viene riconosciuto a livello internazionale) sembra un inutile spreco di denaro. Sono le stesse persone che nella loro ignoranza non hanno ancora capito che siamo nell’interdipendenza, che la finanza criminale si nutre di deregolazione e che questa è fatta di guerre, pulizie etniche, traffici di ogni tipo, riciclaggio, ma anche di delocalizzazione di imprese laddove il costo del lavoro non vale niente o dove non ci sono tutele ambientali. Il problema è che questa ignoranza è diffusa e trasversale, investe i singoli ma anche i corpi intermedi e la politica.
Mentre attraversiamo la Drina, il grande fiume che segna il confine fra Bosnia Erzegovina e Serbia, il poliziotto di frontiera serbo mi chiede dove stiamo andando. Gli rispondo che andiamo a Studenica, nell’antico monastero ortodosso. Inorgoglito che degli italiani visitino quel luogo sacro per la loro identità culturale e, ahimè, nazionale ci restituisce subito i documenti. E’ questa l’Europa che verrà? Quello che accadde a Srebrenica e più in generale nella guerra degli anni ’90 ci riguardava allora e ci riguarda oggi. Purtroppo non lo abbiamo ancora compreso.