Appunti di viaggio. Cinque anni dopo
Puntata 1. Fra le macerie di Goli Otok (e del Novecento)
Il mio ritorno nei Balcani. Nessuna immagine simbolica, nostalgia piuttosto. L’ultima volta fu un paio d’anni fa, a Sarajevo. Milleduecento chilometri, una riunione che forse avrei potuto fare via skype, il rito della bosanska kafa nel mio piccolo bar di Mostar (che pure non è sulla strada del ritorno, ma solo per il piacere di trascorrere qualche minuto in quel luogo) e poi via, altri milletrecento chilometri verso casa. Il tutto in un due giorni, praticamente una follia.
Che non viaggio da queste parti sono in realtà quattro o cinque anni, quasi un abbandono. Tutto quel che si è costruito in quindici anni di relazioni non è svanito nel nulla e questo mi basta. Non il lavoro dei Tavoli della cooperazione di comunità, che in questi anni hanno trovato nuova linfa, energie, intelligenze. Ovviamente discontinuità, com’è normale quando si passa la mano. Non le attività sul turismo responsabile, diventate motivo di impegno professionale (e di passione culturale e politica) di un gruppo di giovani che hanno imparato ad amare i Balcani quando associare quei luoghi ancora segnati dalla guerra al turismo (seppure responsabile) poteva sembrare cinico. Non, ovviamente, l’Osservatorio Balcani Caucaso, che pure considero una delle cose più importanti realizzate nel mio percorso di vita, punto di riferimento, in Italia ed in Europa, per tutti coloro che guardano con un po’ di attenzione verso questa parte del “vecchio continente”.
Nel mio pensiero, nelle letture come nell’agire politico, i Balcani sono stati in realtà tutt’altro che messi da parte. Hanno continuato ad essere, invece, un punto di riferimento e una chiave di lettura del presente. Un dialogo non interrotto, dunque, ma che certo si nutriva di sguardi che, questi sì, mi sono mancati. Quello strabismo che mi ha aiutato a guardare la realtà della mia terra insieme da lontano e da vicino, comunque con lenti diverse.
Ci ritorno partendo da Baska, ma quello che un tempo era un borgo di mare nella cornice affascinante delle isole del Quarnero oggi è diventato uno dei tanti luoghi del turismo plastificato. Non ancora del tutto, per la verità, ma il destino sembra segnato. Per quel che mi riguarda, solo un pretesto per prendere una barca e raggiungere Goli Otok, l’isola calva dove i dissidenti dell’anomalia jugoslava venivano deportati.
Nell’attraversare quel mare provo ad immaginare l’angoscia e l’incredulità dei tanti che in quel tragitto videro infrangersi ideali e speranze. La straordinaria bellezza dei luoghi non riesce affatto ad attenuare la tragica verità testimoniata da ciò che rimane del delirio di onnipotenza di un potere ossessivo che riproduceva, sotto altri simboli, il male assoluto.
L’impatto con Goli Otok mi lascia senza fiato. Se c’è un libro che più di altri ha saputo toccare le mie corde emozionali in quest’ultimo decennio, è stato “Alla cieca” di Claudio Magris. Narra del rincorrersi di speranze e di tragedie lungo il Novecento, nel racconto autobiografico del compagno Cippico, fra la guerra di Spagna, il campo di concentramento di Dachau, il beffardo destino dei “Monfalconesi”, gli operai dei cantieri navali che nel 1948 decisero di andare a costruire l'”uomo nuovo” per poi ritrovarsi – accusati di essere al soldo di Stalin – nel gulag titino. E poi, dopo una vita passata nelle galere di mezzo mondo, il centro di salute mentale di Barcola.
Un libro doloroso che porto con me. Che dovremmo leggere per assumere le giuste distanze, affinché il sogno non diventi incubo, il disincanto cinismo.
Il dolore che Goli Otok emana mi risulta ancor più lancinante. Il modello è quello inaugurato ad Auschwitz: “Arbeit mach frei”, il lavoro rende liberi. Lo scheletro di una grande, ossessiva, allucinante… fabbrica della morte, dell’umiliazione, della demolizione psicofisica dei detenuti. E’ stata in funzione fin quasi alla fine del paese che l’aveva prodotta (1988), praticamente ieri. Oggi è lì come una fabbrica dismessa delle nostre periferie urbane, un mostro trafitto le cui macerie di ferro ed eternit emanano ancora la loro vocazione mortale.
Di fronte all’ingresso di quello che un tempo era l’edificio che ospitava la direzione ed il personale della sorveglianza, costruito in pietra da quegli stessi detenuti che lo chiamavano “l’albergo”, si vendono i souvenir di questa tragedia. I turisti che arrivano sull’isola calva non sembrano scorgere le anime morte che s’aggirano fra le macerie