“La terra del passato vivente”. Così Edith Durham, scrittrice inglese vissuta a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, ebbe a definire l’Albania settentrionale in High Albania, uno dei suoi innumerevoli resoconti di viaggio a metà strada tra l’analisi storico-politica (Durham è stata tra le più accese paladine della causa nazionale albanese, per la quale si batté sino alla morte) e un’etnografia non scevra da “filtri culturali” e stereotipi tipici dell’epoca ma ritrovabili – quantunque in forma più celata – ancora oggi nei discorsi correnti su questa parte d’Europa.

Mai definizione fu più azzeccata. Come ha scritto Renato Novelli, “la storia vera e propria della regione di Scutari si articola tra due realtà: da una parte la storia degli avvenimenti, il grande confronto storico tra Occidente ed Oriente che si sviluppa proprio nel piccolo Adriatico; dall’altro la continuità straordinaria della società tradizionale locale, con regole mai scritte che funzionano per millenni, il mondo di vita locale con ritmi sempre uguali e sempre diversi perché adattati al momento particolare”. Illiri, Slavi, Bisanzio, Venezia e infine gli Ottomani hanno forgiato questi luoghi senza tuttavia mai intaccarne le fondamenta funzionali della tradizione.

La zona pedonale di Scutari (Foto di Christine Bednarz)

La fortezza di Rozafa.

Con Gentjam Memaj ci inerpichiamo in cima alla fortezza di Rozafa, che domina la confluenza dei fiumi Drin e Buma. Lo sguardo insegue distanze remote, la città si distende ai nostri piedi mentre in lontananza indovini il mar Adriatico e la foce del Drin. La fortezza è il risultato della sovrapposizione di costruzioni di diverse epoche, dal periodo illirico fino ai secoli più recenti, e ben rappresenta il “passato vivente” di cui parlava Edith Durham. La moschea attuale fu in origine chiesa di Santo Stefano, costruita nel 1319 e poi allargata dai veneziani in stile dalmata durante il quindicesimo secolo; lo stesso minareto è stato eretto usando i mattoni del campanile preesistente. “Anche se le origini vanno fatte risalire al quarto secolo A.C.”, ci racconta Gentjam, “la fisionomia attuale è stata forgiata dai veneziani, che controllarono Scutari dal 1396 al 1479, prima dell’arrivo degli Ottomani”.  L’interesse della Serenissima per questa regione era dato da ragioni economiche: lungo tutto il medioevo, Scutari fu infatti un importante centro di produzione della seta, destinato non solo al consumo locale ma anche per le esportazioni lungo entrambe le sponde dell’Adriatico. A seguito della conquista turca, quando Scutari venne organizzata in un Sangiaccato relativamente autonomo, i legami con Venezia non diminuirono, e ancora nel settecento i rapporti commerciali erano molto intensi. Aveva ragione Paolo Rumiz, “la Serenissima combatté gli ottomani, ma li sentì cugini del Levante. Vent’anni prima di Lepanto, il doge Andrea Gritti sostenne per tre giorni e tre notti in Senato la causa del dialogo con i musulmani”; e nel 1571, anno della grande battaglia, Venezia continuò a tenere aperto il fòndaco (l’albergo riservato ai mercanti che viaggiavano lungo le coste del mediterraneo) dei Turchi: “in mare ci si scannava, ma il commercio faceva la sua strada”.

La fortezza di Rozafa (Foto di Christine Bednarz)

Come tutti i luoghi archetipici, pilastri di un’identità collettiva, Rozafa è avvolta dal mito: la leggenda, riportata anche da Ivo Andrić ne Il ponte sulla Drina, narra di tre fratelli costruttori a cui era stato ordinato di innalzare la fortezza. Vittime della maledizione di una Penelope invisibile, ciò che costruivano durante il giorno veniva distrutto la notte. Su consiglio di un vecchio saggio, decisero pertanto di sacrificare una delle loro mogli e sconfiggere così le forze avverse: la prima a giungere con il pranzo il giorno seguente sarebbe stata murata viva dentro le mura. Dei tre fratelli, tuttavia solo il più giovane rispettò il patto di non rivelare nulla alla propria consorte, così che questa divenne la vittima sacrificale. Nell’accettare il volere divino, la donna chiese solamente che fosse lasciata una fessura all’altezza della mammella destra per poter allattare il figlio; un’altra all’altezza della mano destra, per poterlo accarezzare; un’ultima infine all’altezza del piede destro per non farlo cadere. L’acqua calcarea che sorga ancor oggi da un muro del castello è creduta fonte di quel latte sacrificale.

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