Tutti, intorno, capirono che qualcosa di terribile era accaduto. Una lacerazione nella comunità, una ferita non rimediabile. Non era caduto solo un ponte, ma un simbolo grandioso di unione fra Oriente e Occidente. Senza di esso, la Bosnia stessa perdeva la ragione di esistere. Fu allora, nella luce del tramonto, che si vide una cosa inattesa. La parabola invisibile del vecchio ponte ottomano, la sua linea perfetta a schiena d’asino, sopravviveva al crollo del manufatto in pietra. Rifiutava di cadere. Stava lì, sospesa fra i due tronconi aggrappati alle rocce bianche. La ferocia materiale dell’abbattimento rivelava tutta la forza della leggenda perduta. Quella per cui l’uomo giusto, secondo i turchi, raggiunge l’Altrove (l’altro mondo, o semplicemente l’Altro) passando su una passerella più sottile di un capello e più affilata di un rasoio. Un arco celeste, purissimo. Il ponte di Mostar era questo, un atto di fede. Un monumento alla supremazia dell’invisibile. Ma lo Stari Most era anche una grande opera collettiva. Non fu, come avviene con l’ingegneria d’oggi, l’esecuzione di un disegno fatto da una mente sola. L’architetto turco Hajruddin, che lo fece, fu solo il coordinatore di un gruppo di tagliatori di pietre bosniaci che lavorarono empiricamente, correggendo le soluzioni adottate in corso d’opera e mescolando procedure orientali e occidentali, venete e ottomane. Nulla fu calato dall’alto o deciso dall’inizio. Tutto nacque dal cantiere e nel cantiere, espresso dalla collettività locale. Il suo coinvolgimento nella costruzione fu tale e durò così a lungo che la cittadina prese il nome dal ponte. Mostar, da Stari Most, cioè ponte vecchio. Come l’alto grande ponte bosniaco, quello sulla Drina, anche lo Stari Most era uno straordinario sensore di eventi. Per sapere storie, bastava sedersi ai suoi bordi e aspettare. Il borbottio del bazar le faceva arrivare. Sul ponte sapevi le cose in anticipo. Un vecchio venditore di souvenir, in un magnifico tramonto di settembre, nel 1991, mi disse con una dolcezza che mi gelò: “Questa è la nostra ultima estate di pace”. Nulla lasciava presagire che il macello in Croazia avrebbe infettato la Bosnia. Ma lui aveva visto lontano. Sapeva, e accettava il destino della sua gente. Era quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interessa strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare. Molti ricordano, in quei mesi, quanta ostilità incontrò in alcune gerarchie cattoliche croate, l’idea che il Papa potesse andare in visita a Sarajevo a rinnovare l’antico segno di alleanza con l’Islam, e dire che l’Europa senza Bisanzio-Istanbul era monca. Europa dunque non solo Occidente, ma ponte essa stessa tra le terre del tramonto e quelle dell’alba. Chissà. Se i Balcani si fossero chiamati “Balkanistan”, forse avremmo capito un po’ di più. Oggi ci accorgeremmo che era impossibile intendere Kabul e Bagdad per il semplice fatto che non avevamo capito la Bosnia, grande avanguardia di Bisanzio nel cuore dell’Europa. Oggi si parla dell’11 settembre. Fu quella, si dice, l’ora zero del conflitto di civiltà. Ma chi vide l’abbattimento del ponte, otto anni prima, s’accorge che talvolta la storia deraglia alla chetichella, senza riflettori. Se satura di significato, anche una passerella che cade può essere un Grande Inizio esattamente come il crollo terrificante di una Torre di Babele. A pensarci bene, molto era già scritto allora, in quella sera in cui una Luna fredda, enorme, sorse dai monti dell’Erzegovina. La guerra dei Balcani non era affatto l’ultima guerra del Novecento. Era la prima guerra del terzo millennio. Esprimeva già il potenziale distruttivo delle tempeste a venire. C’era in essa l’impotenza dell’Europa di fronte alle crisi internazionali che la riguardavano. C’era la debolezza dell’Onu e c’era già, tutta, la solitudine americana nel suo ruolo di poliziotto del mondo. Vedevi anche, con largo anticipo, l’inutilità delle guerre stellari e delle bombe intelligenti di fronte a conflitti rasoterra dove i clan conservavano il controllo del territorio e le popolazioni vantavano capitali di orgoglio e sopportazione capaci di sballare ogni nostra previsione strategica. La guerra in Bosnia, scatenata col pretesto di reprimere un fondamentalismo islamico che ancora non esisteva, lungo dal prevenire il terrorismo, lo svegliava dal suo torpore, lo chiamava in vita. Lo si vide con la strage di Srebrenica, quando novemila maschi musulmani furono passati per le armi in due giorni soli, nell’indifferenza del mondo. Dopo quell’abominio non vi fu alcun attentato, nulla. Ma il mostro si svegliò, mujaheddin e mercenari suicidi accorsero da Oriente. E l’Europa cominciò a fare cortocircuito con la Palestina. A Mostar si vide, poi, la bugia della guerra etnica e religiosa, raccontata come tale anche dai media occidentali, e poi condannata a svelare miseramente i suoi contenuti affaristici. Si vide l’archetipo dello scontro tra città e campagna nell’era della globalizzazione. Si vide, allo stesso modo, quanto rapidamente i conflitti proclamati in nome dell’identità, anziché proteggere le comunità locali, le sfiancavano, aprendo le porte alla colonizzazione multinazionale dei territori. Apparve anche la complessità culturale dell’Oriente, una complessità divenuta incomprensibile e intollerabile a questo nostro mondo del consumo che banalizza, semplifica e ragiona solo per grandi flussi e grandi reti. E difatti fu lì, dopo Mostar, con l’invio delle fortezze volanti sulla Serbia, che anche l’Occidente cominciò a bombardare i ponti e ad abbattere simboli, svelando la sua incapacità di governare i territori e condannandosi alla non soluzione delle crisi internazionali. Non si percepì che in Bosnia cominciava – come si sarebbe visto di lì a poco da Israele all’Hindukush – un mondo dove l’orrore e l’incanto, la mansuetudine e la ferocia diventavano inscindibili, due facce della stessa medaglia. Come il ponte sulla Drina, altro capolavoro turco in Europa, dove il Nobel Ivo Andric descrive meticolosamente sia l’abominio di un impalamento sia la dolcezza di una storia d’amore. Mostar era la porta di un mondo altro, dove il tempo entrava in dimensioni carovaniere. Lì iniziava una ricerca della lentezza – il sorseggiare del caffè, le trattative al mercato, le preghiere – che spiazza va noi divorati dalla fretta. Lì cominciavano i popoli magari privi di tutto ma padroni del loro tempo, risorsa sempre più introvabile nello stressato Occidente. “Il tempo è dalla nostra parte”, dicevano tranquilli gli albanesi kosovari sotto i lacrimogeni del serbo Milosevic. Avevano ragione. La loro lentezza ha sgominato l’adrenalina della polizia jugoslava. Oggi quella terra è sempre più loro. E Milosevic è in galera all’Aja. Così gli americani: avranno anche vinto la loro Blitz Krieg a Baghdad, ma i tempi lunghi degli iracheni li mandano fuori di testa. Ripensando a quel crollo col senno di poi, vedi che il conflitto di civiltà nacque allora, e non fu uno scontro fra cristianesimo e Islam. Non fu nemmeno una resa dei conti fra democrazia dell’Ovest e assolutismo dell’Est, moscovita o ottomano che fosse. Fu l’aggressione della modernità contro un mondo che si ostinava a credere nell’invisibile, la rabbia di una civiltà senza più miti e senza più fede contro un Oriente che condensava troppi simboli. Per chi crede nei numeri c’è anche un’inversione di date. La storia non cominciò l’11/9, ma il 9/11. Una data, la seconda, che ha suonato due volte nel cielo d’Europa. Prima che a Mostar nel ’93, a Berlino nell’89, con la caduta del Muro.
L’evento che sembrò liberare i popoli e poi liberò il demone della guerra. Oggi il ponte è ricostruito. L’hanno inaugurato pochi mesi fa. I ragazzi di Mostar hanno fatto festa tuffandosi dalle rocce nelle pozze verdi della Neretva, come facevano da secoli. Ma l’anima del ponte non c’è più. Abbiamo un bel manufatto, espresso dai benevoli finanziatori della Banca Mondiale, da potenze straniere per le quali la Bosnia – come oggi l’Iraq – è un mercato dove ritagliarsi uno spazio di ricostruzione.
Come spiega Gilles Péqueux, che ne avviò i lavori prima di dimettersi in polemica con sponsor (i quali a suo dire non garantivano l’etica del progetto), il ponte nuovo non è più quello di allora. Esso non nasce dall’opera e dalla fede della collettività locale ma da una squadra di tagliapietre turchi, preferiti a quelli locali per ragioni di costi. Non nasce dalla riconciliazione (la città è ancora sconciamente divisa) ma vuole calarla dall’alto su un lutto non ancora elaborato. Così oggi si rischia un innesto incompatibile, a forte rischio di crisi di rigetto. “La sola cosa che interessava ai finanziatori era l’inaugurazione – lamenta l’architetto francese succeduto al turco Hajruddin – l’idea era quella di fare più in fretta possibile e poi andare via”. Il ponte di oggi non è più un figlio di Mostar. Non nasce più dall’incontro dei due mondi.
da “la Repubblica”, 2 novembre 2003