Fino al 1889 Teodo (Tivat), affacciato sulle Bocche di Cattaro, sacca d’acqua che nel corso dei millenni ha spinto indietro la linea delle montagne montenegrine, era un villaggio come tanti altri dell’Adriatico orientale. Si viveva di pesca e agricoltura. Le varie epoche, con i loro dominatori, romani, goti, bizantini, slavi, turchi e veneziani, erano trascorse senza stravolgere troppo ritmi e abitudini del posto e della sua gente.
Fino, appunto, al 1889. In quell’anno l’Austria-Ungheria, che si era sostituita a Venezia nel controllo dell’Adriatico, dopo la fine di quest’ultima nel 1797, decise di costruire un arsenale militare. Da villaggio, Teodo divenne città; da luogo di pesca e agricoltura passò a essere centro industriale.
Le scelta di Vienna dipese da varie ragioni, ma la principale fu l’indipendenza italiana, spiega Drazen Jovanovic, curatore del Museo delle tradizioni navali di Teodo. “Nella seconda metà del XIX secolo la situazione geopolitica europea era cambiata. L’Austria-Ungheria, dopo il crollo di Venezia, era divenuto il paese egemone su questo mare, eppure l’indipendenza dell’Italia ne metteva a rischio il primato. Così Vienna, benché trent’anni prima, nel 1866, avesse vinto la battaglia di Lissa umiliando la flotta italiana, capì che doveva attrezzarsi meglio, assemblare navi da guerra più moderne e rafforzare la parte meridionale dell’Adriatico orientale, costruendo anche qui dei cantieri, come ce n’erano più a nord, a Pola”.
Il museo dà testimonianza di un’altra storica tenzone adriatica tra Italia e Austria, stavolta però favorevole alla prima: l’affondamento della Szent Istvan, corazzata austro-ungherese, avvenuto nel 1918. Qui ne viene custodito un pezzo del motore, l’unico frammento recuperato di quella nave da guerra dalla grande stazza, fatta fuori da un piccolo motoscafo dotato di siluri. Il capitano Luigi Rizzo, che lo comandava, fu accolto come un eroe al rientro al porto di Ancona, da cui era salpato. Il caso vuole che da lì fossero partite anche le navi che a Lissa patirono quella così cocente sconfitta. Ma è difficile trovare nel capoluogo marchigiano segni, targhe, qualsiasi altra cosa che ricordi l’uno e l’altro evento. Le battaglie dell’Adriatico sopravvivono nei libri di storia e nei musei.
Quello che visitiamo recupera e valorizza la storia dei cantieri di Teodo, che furono la linfa della città anche durante l’era jugoslava. Vennero intitolati a Sava Kovacevic, eroe della guerra partigiana. Il management era militare, i lavoratori civili. Negli anni ’80, il picco massimo dell’occupazione, le officine davano lavoro a circa 3500 persone.
“L’arsenale era il centro della città. Tutto gli ruotava intorno. Lì accanto c’erano l’istituto nautico e le case degli operai. Il lavoro portò qui gente da tutta la Jugoslavia. Dalla Slavonia, in Croazia, e da Kosovo, Serbia, Macedonia. I bimbi dei dipendenti andavano nelle stesse scuole, giocavano negli stessi parchi”, racconta Milica, una ragazza del posto. Era tra quei bimbi, in quei parchi.
Prima dell’indipendenza del Montenegro, nel 2006, i cantieri furono messi sul mercato. L’anno dopo furono rilevati da una cordata di investitori con a capo Peter Munk, magnate canadese del settore dei metalli. In breve tempo ha trasformato la vecchia area dell’arsenale in una della marine più lussuose al mondo. Si chiama Porto Montenegro. Il museo curato da Drazen Jovanovic si trova all’interno del suo perimetro, a fare da sentinella su un passato che non c’è più.
Il presente racconta di lusso e modernità. Kristina Skanata, che a Porto Montenegro è tra chi cura le pubbliche relazioni, ci accompagna a visitare la struttura. Ci sono 450 attracchi, di cui 150 per i super yacht. E ci si sta preparando per un’ulteriore estensione. A realizzarla, però, non saranno Munk e i suoi soci in questa impresa: Jakob Rothschild, rampollo della celebre dinastia di banchieri; l’imprenditore francese Bernard Arnault, a capo del più grande consorzio mondiale del lusso; l’oligarca russo Oleg Deripaska, che di recente ha fatto causa allo Stato montenegrino per via di una complicata vertenza sul Kap, colosso dell’alluminio di cui in passato aveva acquisito il pacchetto di controllo. La scorsa primavera hanno venduto Porto Montenegro all’Investment Corporation of Dubai, fondo sovrano di Dubai.
Si progettano anche nuove residenze, oltre a quelle già realizzate e vendute. “Erano centoventi, e sono state comprate tutte”, riferisce Kristina Skanata. “Gli acquirenti vengono principalmente da Russia e Regno Unito, ma c’è anche una quota dall’ex Jugoslavia. Alcuni vivono qui tutto l’anno. Per chi di loro ha affittato un attracco per un periodo lungo ci sono stati sconti sugli appartamenti”. Non è l’unico beneficio che si ha, nel decidere di investire nel mattone o di ormeggiare in estate a Porto Montenegro. “Prevediamo agevolazioni sull’Iva nell’acquisto di carburante, forniamo assistenza continua e assicuriamo lifestyle. Organizziamo cene, eventi, concerti, attività sportive. Ci sono negozi, ristoranti e servizi vari”. Da un po’ di tempo anche un albergo della catena Regent, l’unico in tutti i Balcani.
Porto Montenegro, per Kristina Skanata, ha creato una dote positiva per Teodo. “Le Bocche di Cattaro sono patrimonio mondiale dell’umanità, secondo quanto stabilito dall’Unesco. Malgrado questo, Teodo non ha mai beneficiato del turismo legato a questo status. C’erano i cantieri, e l’aeroporto (c’è ancora). Adesso anche noi abbiamo qualcosa da offrire. E poi, Porto Montenegro non è una città nella città. Abbiamo donato più di due milioni di euro per progetti sociali, diverse aziende del posto lavorano per noi come fornitori e i nostri ospiti consumano anche in città”. C’è infine il fattore lavoro. “L’azienda madre impiega 120 persone. Ma con ristorante, costruzioni e fornitori si arriva, durante la stagione estiva, a 1200”.
Non è poco, pur se il livello di occupazione dell’epoca d’oro dei cantieri resta lontano. Chi con la loro chiusura perse il lavoro ha cercato di riciclarsi. Qualcuno non ce l’ha fatta, altri sì: per esempio lavorando a Porto Montenegro, mentre veniva tirato su. “Un po’ di manovalanza è arrivata anche dal resto dei Balcani, soprattutto dalla Serbia. E questo ha dato continuità alla storia di attrattività di Teodo, anche se ora le regole del gioco le fa il capitalismo, mentre una volta vigeva il modello socialista jugoslavo”, dice Milica Bogdanovic.
E comunque, i moli di Teodo, dove oggi si affaccia Porto Montenegro e ieri sorgevano i cantieri Sava Kovacevic, calamitarono lavoratori anche prima dell’epoca della Jugoslavia, quando si dovette ricostruire da zero l’arsenale, distrutto nel corso della Seconda guerra mondiale. “Quando gli austriaci scelsero di edificare le officine navali venne chiamata parecchia gente da Trieste e Pola, con competenze cantieristiche”, rivela Drazen Jovanovic. “Un po’ di loro restarono e misero su famiglia”. Anche sull’Adriatico è possibile trovare tracce di quella dimensione multiculturale che da sempre, a volte virtuosamente, altre tragicamente, è cifra dei Balcani.