La Bosnia di Ballarò è a venti minuti dall’Italia, costellata di campi di addestramento di Al Qaeda e abitata da mujaheddin armati fino ai denti. Non è la Bosnia che conosciamo
di Andrea Rossini
Ho vissuto due anni in una zona della Bosnia Erzegovina che Ballarò (trasmissione di Rai3) descriveva nella puntata di martedì sera come infestata di mujaheddin armati fino ai denti, ansiosi di lanciare la guerra santa contro l’Italia. La Bosnia, secondo il conduttore, è ad appena 20 minuti di distanza da noi (anche superando i limiti di velocità, così in fretta non ce l’ho mai fatta), abitata da “musulmani con gli occhi azzurri”, convertitisi negli ultimi anni all’Islam. Certo, secondo una prospettiva storica lungimirante, i secoli quattordicesimo, quindicesimo possono essere considerati “ultimi anni”. Con un po’ di immaginazione.
Il contesto della trasmissione è quello dello scontro di civiltà. Il tentativo, riuscito, quello di creare allarme. L’effetto, anche questo riuscito, quello di stigmatizzare una popolazione (i Bosniaco Musulmani), che ospiterebbero estremisti al soldo di Al Qaeda. L’immagine della Bosnia che ne esce è inquietante. È vero, durante la guerra sono stati numerosi i combattenti stranieri che sono andati in Bosnia per sostenere i Musulmani. Alcuni sono rimasti, e sposandosi hanno acquisito la cittadinanza bosniaca. Parte di loro risiedeva nel villaggio di Bočinje, tra Maglaj e Zavidovići, zona su cui si concentrava l’attenzione del filmato. Quella zona è oggi una di quelle che registra le più alti percentuali di ritorno (di Serbi) nell’area. Quei mujaheddin, lì, non ci sono più da anni. L’immagine del territorio presentata dalla trasmissione è fuorviante.
Gli effetti delle guerre producono un’onda lunga. In Bosnia, la vittoria dei nazionalisti di tutti e tre gli schieramenti, avallata dalla comunità internazionale, ha avuto come corollario la sconfitta delle opzioni laiche e volte al dialogo multietnico.
Data la confusione – riuscita – imposta dai nazionalismi tra istanze etniche e religiose, uno degli effetti più macroscopici è stato quello di provocare una radicalizzazione del sentimento religioso. Per quanto riguarda l’Islam bosniaco, in un contesto tradizionalmente aperto data la compresenza secolare nello stesso territorio di religioni diverse, la presenza di combattenti stranieri ha senz’altro avuto un effetto.
Dopo la guerra sono apparse le prime donne completamente coperte, una presenza di estremisti islamici armati anche oggi non è certamente escludibile. Come in altri Paesi europei del resto. Ma le cifre presentate da di Ballarò alludono ad un esercito Perché non ricordare allora anche i mercenari stranieri (cristiani?) che sono andati in Bosnia per combattere al fianco dei Croati o dei Serbi. Quei bravi ragazzi che fine hanno fatto?
Nello scenario europeo, la Bosnia è considerata il luogo per antonomasia dove Oriente e Occidente si sono dati la mano. Il simbolo di questo incontro, il ponte di Mostar, il “bianco arcobaleno di pietra”, è stato effettivamente distrutto, dieci anni fa. Non dai Musulmani però. Perché oggi sarebbero loro l’ostacolo più forte al dialogo? Perché il fantomatico addestratore di combattenti _ intervistato dalla trasmissione-choc – avrebbe reso testimonianze il cui unico effetto era quello di creare allarme stigmatizzando un intero popolo (i Bosniaco Musulmani)? Se è così facile per un giornalista entrare in contatto con questi personaggi, non lo sarebbe altrettanto per le forze internazionali presenti nel Paese (circa 12.000 uomini sotto comando Nato)? Che in Bosnia ci siano armi (tante) non è una notizia, e neppure il fatto che la criminalità organizzata ne diriga il traffico. Rappresenta una delle voci più importanti del suo bilancio, insieme al traffico di persone. Ma si tratta di una mafia multietnica. Quello criminale è infatti l’unico settore nel quale le barriere nazionali non hanno mai rappresentato alcun problema. Presentare i Musulmani come unico potenziale pericolo in questo contesto non è corretto. Siamo fuori dall’informazione, dentro la politica. Quella che favorisce la paura.
Tratto da Osservatorio Balcani e Caucaso