Federica Marzi

LA MIA CASA ALTROVE

Bottega Errante Editore, Udine 2021.

“Rimasta a Trieste per l’estate, mentre i genitori Selma e Zeljko e la sorella Majda come ogni anno tornano in patria, a Zvornik in Bosnia, quest’anno la giovane Amila comincia a lavoricchiare sul Carso, a Bristie (Brišče in sloveno), dando una mano nelle faccende domestiche a due anziani – Norina e suo marito Mariano, esuli istriani riparati a Trieste nel dopoguerra.

Sono due famiglie ‘straniere’ le cui storie si intrecciano nella indefinita città di confine che è Trieste. Famiglie dai sentimenti duri come pietre, inamovibili come montagne. Solo un altro sentimento – leggero, fresco e inatteso – può rendere friabile e addomesticabile quel minerale e spingere all’autocomprensione e all’assoluzione, per se e gli altri.

Emigrare è come ficcarsi in un labirinto psicologico. Emigrare per sfuggire a una guerra è come finire in un labirinto dagli angoli stretti e spigolosi e dai continui rimandi di frastornanti specchi. Un percorso di generazioni che sfocia nel multiculturalismo – nel migliore dei casi -, raramente nell’interculturalismo.

Federica Marzi conosce la sensazione di sentirsi diversa in un Paese che è quello dove ti sei fermata dopo essere fuggita dal tuo. La chiama “stranieritudine” e la scompone in “stranieraggine” e “rettitudine”. Il suo libro “La mia casa altrove” è tappa, punto ristoro nella lenta maratona che porta chi è stato sradicato a ritrovare se stesso. O almeno a tentare. Un percorso di generazioni, appunto, che una persona interessata, può apprendere dai libri di storia, dai racconti dei protagonisti, dalla narrativa.

“La mia casa altrove” intreccia due episodi della Storia molto noti: l’Esodo degli Italiani d’Istria, quando i Titini presero il potere e quel mattatoio che fu la guerra nei Balcani. Se finora gli studi storici hanno ricostruito quanto accaduto, la pubblicistica narrativa è ferma nella maggior parte dei casi a qualche anno fa. Federica Marzi, dunque, sposta l’asticella cronologica in avanti di una generazione. Nel senso che i protagonisti non sono (solo) gli Istriani che ripararono a Trieste per finire nel duro campo profughi di Padriciano (Padriče) – come aveva delicatamente descritto Marisa Madieri in “Verde acqua”, – ma i figli e i nipoti di quelli, sparpagliati per il mondo. Non sono nemmeno solo i “Dijasporci”, i Bosniaci che si rifugiarono (anche) a Trieste – come descrive Elvira Mujčić -, ma i loro figli, nati di là e cresciuti di qua del confine; quelli che nel 2005 (quando si chiude il libro) avevano una ventina d’anni e un’inquietudine senza nome.

Da un dolore bevuto fino in fondo come cicuta, possono incredibilmente sbocciare speranze e si può trovare vitalità, nuove energie foriere di una ricostruzione. Non è un confine qualunque quello a Nord Est: vi passava la linea tra Est e Ovest del mondo. La “Cortina di ferro” si era abbassata qui, con centinaia di migliaia di soldati schierati. Mondo comunista e mondo a economia capitalista. Le vicende atroci che lo hanno segnato durante e dopo la guerra – come se qui non fossero bastati i massacri del Primo conflitto mondiale -, seguite dalla Guerra balcanica, ne fanno luogo di misteri e tensioni.

L’esordio al romanzo di Federica Marzi descrive bene il complesso scenario di lingue, religioni, storie. Un’area di cui Trieste, collocata a galleggiare tra passato e geografia, sembra luogo di riferimento, capitale salvifica”.

(Francesco De Filippo, ANSA, 31.01.2022)

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