Prefazione di Luka Zanoni
Ho due grandi deformazioni professionali. Parlo spesso – forse troppo – di Balcani e sono un appassionato di tecnologie e strumenti della comunicazione. Per questo la prima reazione che ho avuto alla lettura in anteprima di questo libro è stato un cinguettio twitteriano: “Cercando la Jugosfera, con un pizzico di Jugonostalgia.” La dimensione del viaggio e della scoperta, la verginità dei primi incontri e il desiderio di sapere ciò che accade a un braccio di mare da noi: c’è tutto questo nelle scorribande che l’autore compie con i suoi compari nello spazio ex jugoslavo. C’è tutto l’oggi di questi luoghi, dalle cose più scontate alle sfaccettature meno note. Il peso della storia, e le sue guerre, sono affidati a tavole in bianco e nero, pennellate di passato e dettagli di un Paese che non esiste più. Ed è qui che emerge più prepotente la Jugonostalgia, rimpianto di un passato poco elaborato, troppo spesso solo confrontato con le macerie fisiche e morali lasciate dalle guerre degli anni Novanta. Con il motto “si stava meglio quando si stava peggio” si rimpiange un vivere comune, il potersi muovere e viaggiare all’estero, e un moderato benessere. Si rimpiange la quotidianità, per dimenticarsi il regime. Come è accaduto – prepotentemente – anche a me, l’autore e i suoi compagni di viaggio subiscono il fascino di questi luoghi, ne restano ammaliati, vivono il “mal di Balcani” e non lo nascondono: “Infatuati dai Balcani, puntiamo a queste terre ogni grappolo di giorni che il lavoro ci risparmia.” Fanno ormai parte anche loro di quella schiera di inguaribili, e lo comunicano senza inibizioni. E il libro non lo si legge – o scrive, o disegna – per approfondire, per sapere, ma per assaporare. Odorare la rakija fatta in casa, gustare il sapore del kajmak, respirare il profumo dei prati freschi. I disegni a tempera dialogano con l’inchiostro del racconto, quasi lo assorbono e lo fanno proprio, delineando, a tinte tenui, un gesto, un paesaggio, un vissuto: Valjevo, Sarajevo, Mostar, Pančevo, Goli Otok, Novi Sad… In gioco c’è più di un viaggio. C’è l’incontro con l’Europa, quella fatta di alterità e minoranze. L’incontro con l’altro da noi, con il diverso, con chi si è fatto la guerra. Ma allo stesso tempo con il fratello, con le comunanze, con quello che siamo: bastardi e meticci. Ed è qui che ritrovo la Jugosfera. Ovvero le relazioni tra le comunità, i popoli e i Paesi che facevano un tempo parte di un unico stato federale: tutto ciò che c’è di comune, dalla lingua alla cultura, tutto ciò che quei popoli hanno fatto e fanno assieme. A più di venti anni dall’inizio dello sfaldamento violento della Jugoslavia, ormai irrimediabilmente ex, manca molto a una riconciliazione delle comunità che vi vivono. L’elaborazione del passato è ancora lontana, la giustizia perle vittime troppo spesso inevasa. Si celebrano gli anniversari, ci si ricorda di esserci stati, ma in generale poco si parla di questi luoghi al di là dell’orizzonte bellico o di quello strategicamente commerciale. La conoscenza che si ha dei nostri vicini d’oriente è ancora scarsa e superficiale. Paesi che emergono ritmicamente e con fragore con i fatti di cronaca, lampi nel quotidiano buio d’attenzione. Questo lavoro non è rivolto solo a chi ha amato e ama la Jugoslavia, a chi ha amato e ama i Paesi che sono sorti dalle sue ceneri. È un libro per tutti. Come un taccuino pieno di tasche, per infilarci gli indirizzi e i biglietti raccolti strada facendo, i pezzi di vita attraversata, le foto, le matite, gli acquerelli. La narrazione a fumetto e il disegno, in modo potentemente evocativo, avvicinano, raccontano, accennano, alludono. Invitano ad approfondire e conoscere. Perché allora non usare questo grande taccuino come stimolo a prendere lo zaino in spalla e conoscere più da vicino le terre d’oltre Adriatico, assaporarne la storia e viverle al presente? E anche se sarà solo letterario, buon viaggio.