Una tempesta di odori e immagini policrome in caotico movimento ha sorpreso i nostri sensi, fino a poco tempo prima intorpiditi dal grigio spettacolo della parte serba di Kosova Mitrovica e dall’agghiacciante visione di un kombinat metallurgico in perfetto stile sovietico che annuncia l’entrata in città. Abbiamo appena attraversato il ponte sull’Ibar che sancisce, se ancora ce ne fosse bisogno, il confine fra la parte albanese mussulmana e quella serbo ortodossa dell’agglomerato. L’acida puzza di benzina bruciata che m’impregna le narici, l’impressionante via vai di carretti stracarichi trainati da scheletrici cavalli, gli onnipresenti minareti, il disordine che ovunque pare regnare sovrano. Tutto mi fa credere per alcuni interminabili secondi di essere caduto in un baratro spazio temporale in cui le mie categorie interpretative sembrano completamente inutili.
Mai prima d’ora mi era successo di conoscere un luogo in cui lo stacco fra due civiltà fosse così netto e geograficamente limitato. Di lì a qualche giorno la scena si ripete. Anche se il “ponte” che dal centro di Peja, città del Kosovo orientale ormai etnicamente pura, ci porta all’enclave serba di Goraždevac, è lungo qualche chilometro di aperta campagna. Qui incontriamo Rocky e Ivanko, due ragazzi serbi che partecipano ad alcune delle iniziative sostenute dal Tavolo Trentino per il Kosovo. Vivono e si spostano all’interno di quattro chilometri quadrati e dicono di non sentirsi sicuri nemmeno in quest’area, visto che i soldati della KFOR che presidiano le strade d’accesso a Goraždevac non hanno licenza di aprire il fuoco in caso d’attacco armato. Mentre ci stanno descrivendo una loro giornata tipo, chiedo a Ivanko quanto spesso vada a Peja. Rocky mi squadra con uno sguardo glaciale e io frettolosamente mi correggo. Peja qui non esiste. C’è solo Pec, nome serbo della stessa città. La lingua diventa un esasperato strumento d’identificazione, così come i simboli religiosi e, temo, pure i tratti fisionomici.
Pochi giorni prima, nell’incantevole Val Rugova a pochi chilometri da Pec/Peja, ero stato bersaglio dello stesso sguardo, quando, ringraziando il padre della famiglia albanese che ci aveva ospitato lì per qualche notte, mi ero lasciato scappare un serbissimo “hvala”. Ma aldilà dei manifesti dell’UCK affissi nella stanza dei maschi riservataci per dormire e dell’onnipresente voce dei muezzin che chiamano alla preghiera, mi risulta abbastanza facile trovare fortissimi segni di continuità nei mondi contadini di Lopatnica, di Goraždevac e della Val Rugova. In tutti questi luoghi ciò che mi appare deflagrante, in modi e intensità diversi, è lo scontro con una modernità che si dimostra sempre più escludente ed irrispettosa di ritmi ed equilibri preesistenti ad essa, che potrebbero ancora fungere da eccezionale collante per la convivenza.
La strada del ritorno, attraverso il Sangiaccato montenegrino e serbo, Belgrado e la desolatissima “autostrada dell’amicizia” per Zagabria ci ripropone in mille salse questo stesso contrasto.
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