“Senza i serbi non potrei respirare, senza i croati non potrei scrivere e senza essere me stesso non potrei vivere con loro”. Così Abdulah Sidran, poeta bosniaco di origine musulmana, si rivolse alle migliaia di persone, appartenenti alle tre etnie della Bosnia, che il 5 aprile 1992, si radunarono a Sarajevo davanti al parlamento per scongiurare la guerra e la disgregazione violenta del loro Paese. Parole che non diedero frutti. Di lì a poco Sarajevo venne stretta dai serbi in un assedio durato 44 mesi (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996) che provocò 11.451 vittime ricordate, lo scorso 6 aprile, da altrettante sedie rosse poste tutte davanti al monumento della Fiamma eterna. Le armi oggi sono state deposte, ma tanti sono ancora i problemi di un Paese che appare spaccato e dove anche l’istruzione è divisa su base etnica. Uno dei protagonisti di allora, il generale Jovan Divjak che si batté per difendere la città assediata, oggi è impegnato a favore dei bambini orfani di guerra. L’associazione da lui fondata “Obrazovanje Gradi BIH” (L’istruzione costruisce la Bosnia-Erzegovina) opera per promuovere l’istruzione tra le giovani vittime del conflitto.
Generale, sono passati 20 anni dall’assedio. Com’è oggi la situazione?
“La situazione è ancora critica. C’è molto più odio adesso rispetto ad allora e anche dopo. I giovani crescono in un clima ostile e di diffidenza verso l’altro. Molti di loro ascoltano le storie di guerra raccontate dai genitori: ‘non andare con loro perchè sono diversi, perchè non sono come noi’. Si parla la lingua dell’odio, e i politici non aiutano a migliorare la situazione. L’Europa stessa non sa cosa fare con la Bosnia”.
Gli accordi di Dayton del 1995 hanno diviso il Paese per etnie…
“È molto difficile perchè abbiamo un sistema politico e amministrativo complicato. Ad esempio nella Federazione croato-musulmana ci sono i cantoni, e ogni cantone ha la propria amministrazione. Abbiamo 13 leggi diverse sull’educazione: abbiamo tre storie, tre lingue, tre culture. Esistono tre programmi educativi e sono per lo più al servizio delle politiche nazionaliste. Questa frammentazione, come si può facilmente intuire, divide la gente, specialmente i giovani”.
Un’istruzione non più differenziata su base nazionale potrebbe contribuire alla riconciliazione?
“L’educazione e l’istruzione dovrebbero andare in questo senso, ma purtroppo questo adesso non è possibile perchè i programmi scolastici sono diversi, i libri che usano i ragazzi sono diversi. A qualcuno il programma misto dà fastidio. Si creano così situazioni di segregazione. Possiamo dire ad esempio che se in una scuola ci sono pochi serbi o croati, questi certamente dovranno seguire il programma scolastico della maggioranza bosgnacca (bosniaci musulmani). Succede anche che nella città di Zvornik, a nord est della Bosnia nella Repubblica Srpska, i bosniaci tornati nelle loro case dopo la guerra devono studiare il programma serbo con una storia un po’ interpretata e che non sempre corrisponde a verità. Molte scuole serbe inoltre hanno mutato i nomi chiamandosi con quelli dei santi. Questo è già un elemento di discriminazione per uno studente bosgnacco. A Sarajevo molte scuole portano il nome di un poeta famoso o di uno scrittore”.
La sua associazione promuove anche l’istruzione a favore degli orfani di guerra. Come si sviluppa questa attività?
“L’associazione è nata nel 1994 per aiutare i bambini vittime di guerra, qualsiasi sia la loro origine etnica. Ma anche bambini invalidi, bambini che hanno talento ma non hanno mezzi per studiare, bambini appartenenti alla minoranza rom, di famiglie povere che non riescono a mandare propri figli a scuola perchè senza denaro. A questi offriamo materiale scolastico, computer. Cerchiamo anche finanziamenti per giovani che hanno bisogno. Offriamo loro viaggi di studio all’estero. Organizziamo incontri sui diritti dei bambini e corsi di formazione”.
Il processo di riconciliazione nazionale passa anche attraverso il riconoscimento degli Stati nazionali delle proprie responsabilità nelle violazioni dei diritti umani commesse durante la guerra…
“C’è ancora molta strada da fare. Abbiamo continuamente nuovi casi che vengono fuori. Ci sono ancora molti criminali di guerra nella zona di Srebrenica, che svolgono funzioni importanti nella società. Non solo non sono processati ma sono stati ‘premiati’ affidando loro incarichi di lavoro di una certa responsabilità. Ancora troppi crimini sono rimasti impuniti. Ci sono sulla lista ancora 14.000 persone da processare”.
Prima della guerra la Bosnia e Sarajevo erano un modello di convivenza pacifica tra religioni diverse. Come sono i rapporti tra le diverse comunità religiose oggi?
“La situazione in città è tranquilla, più difficile è la situazione nei villaggi. A Sarajevo oggi i bosniaci musulmani sono maggioranza, ma ci sono anche croati e serbi. Banja Luka (capoluogo Repubblica Srpska, ndr) presenta il 96% di serbi, mentre prima della guerra erano solo il 30%. La comunità cattolica è stata protagonista di un esodo forte. Quelli che non sono stati uccisi sono o scappati o sono andati a vivere in un altro posto. Non sono rimasti in tanti, un numero molto inferiore di quello che era prima della guerra. A Posavina, a nord est, prima della guerra c’erano 220.000 croati cattolici, adesso neanche 20.000. La guerra ha di certo cambiato molti equilibri”.