E’ stato da poco pubblicato in Germania il carteggio tra Stephan Zweig e Joseph Roth, ebrei figli di quella Mitteleuropa asburgica elevata poi – con la sua dissoluzione al termine della prima guerra mondiale – a mito, patria perduta in cui rifugiarsi con l’anima e la mente quando il corpo era imprigionato negli anni bui dei deliri totalitari e l’edificazione degli stati nazionali. “Voglio riavere la monarchia Austro-Ungarica, e voglio dirlo” scriveva Roth al suo amico nel decennio precedente allo scoppio del secondo conflitto mondiale, mentre Zweigh lavorava in quegli stessi anni al progetto politico di una federazione europea che partisse dal modello della Mitteleuropa danubiana, tollerante e aperta ad ogni diversità, dove poter viaggiare senza passaporti e frontiere.
Due immagini descrivono al meglio quell’Europa e il suo straordinario mosaico etnico-religioso, la sua cultura feconda di sincretismi e ibridazioni: la diaspora e lo straniero. La prima a ricordare come l’identità asburgica si fosse forgiata nella mediazione, nello spostamento, nell’incontro con l’alterità: un continuo processo di conservazione e mutamento che aggiungeva nuovi elementi adattandoli ai vecchi, senza per forza abbandonarli o rifiutarli. Lo straniero invece come capacità di accettazione della differenza, il mettere in discussione le proprie credenze più profonde attraverso il dialogo e il confronto. Come scrisse Alberto Melucci, ciò si può realizzare solo ” se si mantiene uno spazio per il dissidente: solo se c’è uno straniero è possibile venir chiamati a giustificare le proprie convinzioni e azioni senza considerarle come naturali, non problematiche, evidenti”.
Il mio viaggio nella pustza ungherese in visita al presidio Slow Food della salsiccia di Mangalica parte da una delle tante spiagge dell’esilio sparse per la Mitteleuropa: Szentendre, piccolo sobborgo a nord di Budapest, accolse alla fine del diciassettesimo secolo molti profughi in fuga dall’avanzata turca nei Balcani: albanesi, greci, bosniaci, ma soprattutto serbi, guidati dal patriarca Arsenije Crnojević raffigurato in numerosi quadri alla guida di una carovana di occhi spenti e corpi spossati dal lungo cammino.
Apro il Danubio di Claudio Magris e scopro che “i serbi, intraprendenti mercanti, diedero alla cittadina – insieme ai greci – floridezza e agiata eleganza, chiese barocche, rococò e classicheggianti, case mercantili, patrizie, armonia di piazze raccolte e di onorate insegne commerciali”. Oggi Szentendre è come una bella imbalsamatura egizia, impeccabile dal di fuori ma senz’anima: la comunità serba è pressoché scomparsa, così come quella greca o bosniaca. Siamo nell’Ungheria della destra nazionalista e xenofoba di Victor Orban, che pochi mesi fa nella nuova costituzione ha ridefinito lo Stato ungherese in chiave etnica (ossia magiara) cancellando ogni diritto per le minoranze, siano esse rom, ebrei o omosessuali. Un ritorno agli anni trenta e quaranta dei regimi filonazisti di Horty e Szalasi.
Se il viaggio come ha scritto Magris è sempre anche “una spedizione di salvataggio, la documentazione e la raccolta di qualcosa che sta estinguendosi e fra poco sparirà”, ecco allora che il senso di questa iniziativa danubiana promossa da Viaggiare i Balcani assieme a Slow Food può essere anche il recupero fuori tempo massimo del progetto di Stephan Zweig, dando cittadinanza ad un’idea di Europa inclusiva e ibrida, che purtroppo è oggi quantomai in crisi.
Pustza man.
Quest’idea di Europa – la Mitteleuropa danubiana ipostatizzata non solo da Roth e Zweigh ma pure da Robert Musil o Sàndor Màrai, anch’essi miei compagni di viaggio – l’ho ritrovata nella fattoria di Olga, a Kerekegyhaza. Il Danubio lo abbiamo abbandonato all’altezza di Dunafoldvar, un centinaio di chilometri a sud di Budapest, inoltrandoci nella vasta e sterminata pustza ungherese – negli occhi il giallo ocra dei campi di grano e mais a perdersi nell’orizzonte.
Una volta lasciata la provinciale che collega Solt a Kecksemet, al termine di una piccola radura di acacie arriviamo alla fattoria, di proprietà della famiglia di Olga da diverse generazioni. Gelsi e pioppi centenari rinfrescano l’aria, ai margini dell’orto giace chissà da quanti anni una vecchia trabant.
Olga Rendek è la referente del presidio Slow Food della Salsiccia di Mangalica. Come tante altre donne incontrate durante i miei viaggi nel Sud-Est Europa – penso alle componenti della rete di turismo responsabile a Prijedor (Bosnia-Erzegovina) riunitesi nell’associazione Promotur, Kraljevo (Serbia sud-occidentale) con il convivium Slow Food guidato dall’intraprendente Dragana e il B&B di Biljana – è lei a mandare avanti la baracca: si prende cura del porcile da cui ricava non solo salsicce ma anche sapone di grasso di maiale e prosciutto venduto specialmente durante la pasqua ungherese; un orto simile ad un Eden al cui interno si trovano più di cento spezie e verdure diverse; nel giardino piante di mela cotogna e albicocca da cui ricava una deliziosa grappa.. il marito sarà una presenza discreta, quasi invisibile, taciturno e come intimidito dalla nostra presenza lo vedremo affacciarsi talvolta dalla porta di casa per poi scomparire subito al suo interno.
Una seconda figura umana si aggira per la fattoria, mantenendosi sempre a distanza di sicurezza dal nostro gruppo: un uomo anziano, alto e ricurvo, il passo segnato da un’incertezza nervosa. Sulle prime crediamo tutti sia il padre di Olga o di suo marito, ma poco dopo è la stessa Olga a svelarci la sua vera identità: “circa venti anni fa, una sera d’estate ricevemmo la visita di Karoj, l’uomo che vedete nel pollaio, un solitario vicino di casa che ai tempi abitava in una fattoria a qualche chilometro dalla nostra. Terminata la cena, Karoj ci chiese il permesso di rimanere a dormire da noi. Allo stesso modo, anche il secondo e terzo giorno lo ospitammo presso la nostra fattoria.. penso che ad un certo punto si sia scordato di tornare a casa, e così non ci è restato altro da fare che adottarlo”.
Oggi Karoj è parte della famiglia. Ottant’anni raggiunti senza mai prendere una medicina e facendosi una doccia all’anno, beve sei litri di spritz e due bicchierini di grappa al giorno (per questo la sera non ne troviamo sulla tavola, ci dice Olga che “se l’è bevuta tutta Karoj!”), dà una mano nel pollaio o nel porcile combinando spesso guai e prendendosi di conseguenza le urla e i rimproveri della padrona di casa.“E’ un tipico pustza man” ci dice sorridendo, “la mia vicina tedesca mi ha detto che anche in Germania ce ne sono tanti come lui”. E’ in questa mite e serena accettazione che ritrovo i segni di quel vecchio spirito mittleuropeo oramai perduto, capace ancora di accogliere ogni esule e renderlo parte della propria storia, di un comune destino.
Fine prima parte.
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