Mostar
Mostar è un piccolo gioiello incastonato tra le montagne dell’Erzegovina. Un presepe in pietra a scala naturale. Il centro storico ristrutturato oggi è meta di numerosi turisti. Giungono qui da mezzo mondo per vedere lo Stari Most: il simbolo della fratellanza spezzata e ricostruita. Sono diventate attrazioni anche i rimanenti palazzi distrutti e divelti dalle bombe, le pareti crivellate dai colpi e le ferite della guerra.
In questa splendente giornata di sole, in cui le acque del fiume brillano di un azzurro pastello con bagliori di verde smeraldo, passeggiamo attorno allo Stari Most aspettando di vedere i tuffatori. Sono due ragazzi con il costume da bagno ad oltrepassare il parapetto di ferro battuto mentre centinaia di macchinette fotografiche cominciano a scattare, uno biondo con la carnagione chiara, sicuramente di etnia croata, l’altro con la pelle mulatta, che presumo essere mussulmano. Uno dopo l’altro si lasciano spettacolarmente cadere nel vuoto, piombando in posa plastica tra le acque del fiume e scomparendo nel nulla. Dopo il tuffo il silenzio pervade gli spettatori fino al momento in cui, pochi secondi dopo, il tuffatore ricompare sulla sponda opposta del fiume. Scoppia l’applauso.
Un simbolo della ritrovata fraternità tra le due etnie? Probabilmente solo uno spettacolo originale per turisti facoltosi. Ma sulle questioni economiche non sembrano esserci mai stati odi etnici tra le popolazioni balcaniche. A dimostrazione di quanto ignoriamo sulle vere ragioni dei conflitti nella regione.
Di Mostar è difficile dire di più, almeno per chi ci passa che pochi giorni. Il centro è una visita guidata collaudata per turisti. Fuori dal centro edifici moderni e qualche crivellata di colpi sui palazzi da ristrutturare, ogni tre palazzi crivellati una macchina fotografica che li immortala. All’orizzonte l’immensa croce di ferro che i croati hanno installato sul cucuzzolo della collina di pietre. Per marcare il territorio a sfregio del paesaggio. Di fronte spiccano i minareti, più piccoli, incastonati nella città, con il muezzin che canta al tramonto.
Mentre cerco di intuire il quotidiano dei residenti a Mostar mi imbatto in un graffito particolare: una specie di ciuccio per infanti a forma di pugno chiuso. È il simbolo della rivolta dei ciucci: una delle prime proteste organizzate che si svolgono in Bosnia dalla caduta della Jugoslavia socialista e a cui i media europei non hanno dato nessuna importanza, snobbando le proteste bosniache come inutili e noiose. La rivolta dei ciucci nasce dalla diatriba tra i politici delle tre etnie del paese e sul metodo da utilizzare per le carte d’identità dei nuovi nati, risultato: i bimbi nati a partire dal 2013 non hanno un numero di serie ufficiale sul proprio documento di riconoscimento e quindi non possono uscire dal paese neppure nel caso in cui una grave malattia necessiti l’intervento di ospedali e cure mediche straniere.
Sarajevo
Vedi Sarajevo e te ne innamori, senza che tu possa neppure rendertene conto dal momento in cui arrivi la città comincia a duettare un tenero valzer per avvicinarti, per accarezzarti dolcemente con gesti eleganti ed educati. Sarajevo non è mai sotto tono, non è mai volgare ne indiscreta. Sarajevo sembra osservarti incuriosita, lasciandoti sfilare tra le sue vie. Tanto sa già perfettamente dove andrai a parare e ti aspetta al capolinea, dove è arrivata addirittura con un secolo d’anticipo. In quel 1914 quando Francesco Fernando Imperatore d’Austria venne assassinato dal colpo di testa di un anarchico serbo. Il Latinski Most è oggi una delle destinazioni turistiche principali di Sarajevo, ma in pochi si soffermano davvero ad osservarlo dopo aver scattato le foto di rito.
Il Latinski Most però mi attira molto meno di quello che scorre ai suoi piedi: il Miljacka, il fiume che attraversa la città e che sembra una linea del tempo tracciata da una penna incerta al centro della vallata. Ogni passo fatto sul lungo fiume del Miljacka equivale ad un anno del ventesimo secolo. Ogni volta che sollevi il piede senti la lancette della storia scorrere, trascinandoti avanti e indietro a zonzo per il 1900. Lungo il Miliacka c’è la storia completa di Sarajevo, quasi fosse un’enciclopedia da leggere: c’è la Biblioteca Nazionale, vero simbolo della città e sopratutto della sua popolazione, oggi i lavori di ristrutturazione dell’edificio sono quasi terminati e si possono già ammirare i colori originali restituiti. C’è l’accademia delle Belle arti che non ha mai smesso di formare nuovi artisti, veri Genius Loci della Polis bosniaca, c’è la sinagoga. C’è il palazzetto dello sport, oggi abbandonato e pericolante, coi calcinacci che cominciano a crollare al suolo e quella che fu la bella piazza antistante con le mattonelle rosse smaltate e scheggiate. In quel palazzetto si scontrarono a colpi di Hockey Stati Uniti e Unione Sovietica nella finale dei giochi olimpici invernali del 1984, forse l’anno d’oro al centro dell’epoca d’oro della città, quando Sarajevo era all’avanguardia nell’arte, nella musica, nel teatro. Troppo avanti, troppo vanitosa vista da fuori per poter essere capita. Troppo all’avanguardia per capire il resto del paese e per dar credito alle fandonie etnico-nazionalistiche che le crescevano tutt’attorno.
Sul Miljacka si affaccia il quartiere di Grbavica, dove la maggioranza della popolazione serba viveva ad inizio anni novanta. Mentre risalendo nel cuore di tenebra di questo mite ruscello e uscendo di pochi chilometri dalla città c’è la frontiera con la Repubblica Srpska, dove gli eserciti si diedero battaglia.
Passeggiando lungo il Miljacka si incontra anche il Parlamento bosniaco, di cui tutti ricordiamo le immagini mentre le fiamme lo avvolgono dopo essere stato cannoneggiato dai serbo bosniaci.
Infine, allontanandosi di pochissimo dal lungo fiume si incontra anche l’Ambasciata americana, una grande villa con un immenso giardino, forse la più sontuosa di Sarajevo, dista qualche centinaio di metri dal Miljacka ma non può essere esclusa dalla storia del Novecento di questa città.
Ritornando in centro mi godo il fresco degli alberi che ombreggiano il cortile della moschea principale, osservando incuriosito la troupe televisiva che intervista un giovane rabbino e l’Immam. Quando la camera si spegne uno estrae l’I-phone, l’altro un fazzoletto bianco. A Sarajevo tutto è possibile. In quel momento decido che acquistare uno dei tanti souvenir fatti con i bossoli dei proiettili che si vendono ai turisti non può essere considerato un peccato. Scelgo comunque una penna: perché se Sarajevo legge la storia, fuori da questa vallata non dobbiamo lasciarla scrivere sempre agli stessi.
Srebrenica
Centinaia di bare, in legno compensato, sottile, fragile, coperte da drappi in tessuto verde. Vengono portate da Sarajevo il giorno precedente all’anniversario del genocidio. Ogni anno i laboratori di analisi riescono a riconoscere qualche centinaio di persone dai resti ritrovati nelle fosse comuni, a mettere, letteralmente e in tutti i sensi, i pezzi assieme. Quest’anno sono 401 le bare che giungono a Srebrenica.
Vengono lasciate la notte all’interno del capannone dove furono rinchiusi i prigionieri dell’enclave. Che altro non era che il quartier generale del battaglione tedesco dell’ONU: che osservò tutto impotente.
Di fronte al capannone c’è il grande memoriale, che si allunga per una metà sulla collina e l’altra sulla pianura. Guardandolo dall’alto sono centinaia, migliaia le lapidi bianche, squadrate e appuntite. Ordinate una accanto all’altra, sembrano quasi i tasselli di un domino immenso. Tra di loro si muovono migliaia di persone: parenti, amici, conoscenti, sostenitori, mussulmani e non. Sembrano una miriade di formiche che invadono ogni spazio, si riempiono anche la strada e i campi agricoli circostanti. Ma la pittura non è ancora completa, occorre aggiungere le fosse scavate per le nuove bare di quest’anno, grandi cumuli di terra con ancora i badili impiantati sul fianco, e che serviranno per completare l’interramento. A questa situazione di caos si aggiunge l’inquietante sensazione di sgomento al ripensare come così tante persone abbiano potuto trovare la morte. In quel momento noto i primi giornalisti, con telecamera sul cavalletto: Agence France Presse, Reuters, New Yorks Times, The guardian, Al Jazeera. Ci sono tutti: con treppiedi, jeep fuoristrada, computer, macchine fotografiche, antenne satellitari, gru. Completano il grande bazaar della ricorrenza del genocidio.
Dal l’alto della collina decido di scendere e camminare, inoltrandomi nel mezzo di quello che per chi non ha vissuto in prima persona i tragici eventi del conflitto potrebbe sembrare quasi una fiera di campagna.
Passeggiando tra le fosse, le bare, le lapidi però la sensazione cambia: noto una ragazza che sviene per il caldo e il dolore e viene portata verso l’ombra dalla famiglia, noto due ragazzi alti e muscolosi, che piangono a disperazione stringendosi tra le braccia. Vedo sopratutto donne piangere e pregare rivolgendosi a più di una tomba, a volte due, in certi casi anche tre. Sono quelle del padre, del marito e del figlio. Un fitto mistero sembra impedirmi di capire e interpretare gli sguardi di quelle donne.
L’angoscia si respira davvero nel mezzo del cimitero, sembra quasi di riportare a galla gli eventi, sguardi persi nel vuoto di chi, dopo più di vent’anni, ancora aspetta di sapere che fine abbia fatto il corpo del fratello, o chi invece dovrà accontentarsi del pezzo che sono riusciti a riconoscere, una gamba fino al ginocchio o poco più. Questa è la ricorrenza del genocidio di Srebrenica.
Per chi avesse la memoria corta a Srebrenica sono morte più di 8’000 persone in tre giorni, nel luglio 1995, durante il conflitto in Bosnia, quando i gruppi militari di ogni etnia compivano missioni di pulizia etnica contro i villaggi e le enclavi altrui. Una follia aberrante che sfuggì a qualsiasi forma di controllo.
Mi allontano dal memoriale quando arrivano i gruppi di viandanti a piedi, i ciclisti, i motociclisti, tutti hanno percorso il viaggio della memoria per giungere fino a qui. Nel frattempo le bare una dopo l’altra vengono sollevate dai volontari da dentro al capannone e portate in fila indiana verso il cimitero. Saranno poi ricoperte da un grande telo plasticato blu, in attesa di avere sepoltura dopo la preghiera del muezzin domani mattina.
Percorro il corteo funebre al contrario, risalendo verso il capannone dove ora resta sopratutto un grande spazio vuoto, poi noto la grande fabbrica che completa il complesso industriale socialista. Mi chiedo che cosa fabbricassero qui, ma non riesco a capirlo. Scopro i segni ancora presenti della tragedia che si consumò in quei giorni: scritte sui muri, scrivanie e tavoli divelti, le impronte di alcuni bambini fatte col fango su di un muro. Percorro i corridoi, le scale, le stanze una dopo l’altra, incrocio altri curiosi, qualcuno scatta foto. In un certo punto noto più persone che altrove, mi avvicino: sulle pareti della piccola stanza sono pitturati alcuni disegni pornografici, che mescolano in maniera sbalordente e con una potenza imprevedibile guerra ed atti sessuali, il simbolo è un carro armato con al posto del cannone un grosso organo sessuale maschile. Mi chiedo in quale forma di follia umana si siano potute ritrovare in quei giorni le persone rinchiuse qui dentro. Mi chiedo ma non riesco ad immaginare nulla del genere, non riesco a ricollegarmi neppure lontanamente con nessuna delle mie esperienze di vita.
Disorientato esco all’aria aperta per respirare meglio. Sospiro, decido che ne ho abbastanza e faccio per allontanarmi dal complesso industriale, dalla scuola e dal memoriale. All’uscita della fabbrica però, al cancello d’ingresso dopo il parcheggio un grande cubo di cemento armato chiude parzialmente l’accesso, è pitturato di bianco e si riconoscono ancora due grandi lettere nere: UN. Allora ripenso all’unica interpretazione sensata che a Srebrenica si possa dare di questa sigla: United Nothing! Era scritta da qualche parte all’interno della scuola.
Ho trovato quello che mi aspettavo, forse solo con qualche giornalista in più. Non ci dovevo venire a Srebrenica. Mi allontano, ho fame, cerco un ambulante di ćevapčići.
Bocche di Cattaro
Abbandoniamo Sarajevo con un piccolo van riempito all’impossibile, dopo aver passato la giornata a capire chi sarebbe partito in furgone e chi no. Siamo in nove con sei nazionalità differenti: italiana, francese, bosniaca, spagnola, sudafricana e ceca. Un solo modo per incontrarsi e mettersi tutti d’accordo: Couchsurfing. Il van lascia la Bosnia durante la notte ed avviciniamo le bocche del Cattaro alle prime luci dell’alba, godendoci lo spettacolo meraviglioso dell’unico fiordo sul Mar Adriatico, con le acque verdi che si infilano dritte tra boschi scuri, sembra un lago montano circondato dalle Prealpi.
Raggiungiamo Kotor dopo aver passato la giornata al mare, il sole è tramontato, i lampioni illuminano di giallo le grigie pietre del centro storico e della cinta muraria che sale ripida sul fianco della montagna. Il centro storico di Kotor ha le tipiche fattezze del borgo marittimo della Serenissima Repubblica veneziana: vicoletti stretti e geometrici, case addossate una all’altra quasi a voler occupare meno terra possibile, quasi a voler crescere sull’acqua.
Dopo Kotor pian piano scendiamo lungo tutta la costa montenegrina: Sveti Stefan, Budva, Petrovac, Sutomore. Incontrando distese infinite di turisti, suv russi e serbi, discoteche, ristoranti, lungomari affollati. Una immensa Rimini sembra essersi abbattuta sulla Crna Gora. Che solo fino ad un decennio fa aveva una costa incontaminata e selvaggia, dove anzi il problema era l’opposto di oggi: le immondizie abbandonate ovunque e le discariche abusive, perché il mare era fogna.
Oggi invece regna il business, soprattutto russo. Perché il Montenegro è uno dei nuovi paradisi fiscali, l’occasione giusta per portare la moglie in vacanza e fare un salto in banca. A Budva si trovano direttamente le insegne dei locali scritte in cirillico russo. Mentre nessuno ha ancora ben capito perché il Montenegro utilizzi come moneta l’Euro, visto che nessun accordo bilaterale lo sancisca come moneta ufficiale. Si narra che semplicemente qualcuno sia venuto qui con le valigie piene. È logico chiedersi se non sia semplicemente per facilitare i cambi valuta con i rubli.
La Crna Gora, il Montenegro è a detta di molti il più del paese tra le ex repubbliche jugoslave. Con un mare e una montagna meravigliosi, riserve naturali, spazi verdi e una natura incontaminata su tutto l’entroterra. Dormiamo sulla grande spiaggia che si stende per chilometri nel sud del paese, verso la frontiera con l’Albania.
(3 – Fine)
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