Mi è sempre difficile riflettere, parlare e scrivere di Srebrenica. Non riesco mai a vedere il fondo della mia ignoranza rispetto al fitto intreccio di eventi e responsabilità e rispetto al grandissimo carico di dolore, disperazione, spaesamento, rabbia e rancore che hanno segnato e ancora segnano la città ed il territorio circostante – il Podrinje. Talmente grandi sono i traumi ed i nodi emotivi che schiacciano quest’area che l’Introduzione più adeguata sarebbe una pagina lasciata in bianco; forse l’unica via per tentare di esprimere l’enormità di ciò che soffoca persone, famiglie e comunità.Parole scritte o pronunciate disturbano l’ascolto e di questo è importante che il lettore sia messo al corrente.Spesso mi chiedo se le violenze succedutesi dalla primavera del 1992 al massacro del luglio 1995 abbiano una spiegazione molto semplice e lineare, come mi capita di leggere o sentire.Ma ancor più spesso ho la sensazione che il racconto e la spiegazione di ciò che è accaduto alle comunità serba e bosgnacca di quest’area sia parziale,frammentato, segnato da lati oscuri o in penombra e che le acque siano ancora troppo agitate e torbide per una narrazione più nitida che chiarisca e riunisca i diversi elementi: dalle decisioni nelle stanze della politica e degli uomini in divisa sino alle storie di comunità, famiglie e persone che in questo territorio avevano radici profonde. Dunque, dalla politica all’antropologia passando per la Storia.
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Ho l’impressione che “Srebrenica ed intorno a Srebrenica” siano un mondo non pienamente esplorato, che vi siano ancora molti cosa, molti come e molti perchè da conoscere e comprendere. Per contro, ho la sensazione che ciascuna delle due parti abbia dato forma ad una propria memoria ossificata ed intoccabile, costruita espellendo gli elementi non graditi, perchè mostrare una realtà più composita, fatta anche di tonalità scure e di macchie, sarebbe un cedimento nei confronti dell’altro pagato a caro prezzo.Ognuno custodisce la propria memoria, la propria versione squadrata dei fatti, oscillando tra rivendicazione, giustificazione e negazione del racconto altrui. Si sta così nelle proprie trincee, con le armi in pugno a vent’anni dalla conclusione del conflitto armato, logori, stremati, svuotati. Non vi sono più raffiche di mitra e colpi di mortaio a lasciare cadaveri a terra, ma a Srebrenica e dintorni il conflitto continua, anche nelle giornate di sole tiepido di primavera in cui la natura è un canto.
Certo, ci sono anche giovani serbi e bosniaci musulmani che si sono assunti il compito di parlarsi e riannodare i fili della vita comunitaria, vivendo magari sulla propria pelle diffidenza, biasimo, accuse di tradimento della propria gente e compiendo uno sforzo enorme, come una candela che esposta al vento tremola e lotta per non spegnersi. Al di là delle cifre rivendicate o contestate sulle vittime e al di là delle modalità della violenza è la morte ad estendere il suo regno su tutto il territorio, abbracciando vivi e morti. La comunità serba piange i morti sulla soglia di casa di numerosi villaggi; la comunità bosniaco musulmana piange il massacro di nonni, padri, mariti, figli, fratelli, nipoti nei giorni di luglio in cui le truppe serbe azzannano Srebrenica e Potočari. Nello stagno già rosso sangue cade il macigno dello sterminio a danno della comunità musulmana. A seguito di tanta e tale violenza e di tanta e tale sofferenza è comprensibile che le posizioni siano rigide, bloccate, che non si intenda concedere un solo centimetro all’altro, che dolore e rancore tengano lo scettro in pugno, che ciascuno abbia sete di giustizia se non di vendetta. E’ la solida realtà di un dolore non misurabile, provato all’interno delle mura di casa, di un gruppo famigliare. Cosa fare se non ascoltare con rispetto chi ha perduto i propri cari in modo feroce, chi ha perduto la propria vita di un tempo ed il proprio futuro, chi non ha più figli e nipoti e vedrà estinguersi la sua famiglia, chi reclama giustizia, chi non ha potuto darsi almeno un po’ di pace e consolazione dando sepoltura ai resti di chi è stato giustiziato e giace in qualche luogo ignoto? La convinzione di non aver avuto giustizia e l’assenza di una sepoltura, un luogo in cui essere certi di ritrovarsi, ricordare, piangere e pregare, sono due fattori fortissimi di instabilità personale, di dolore insanabile, di svuotamento della persona.
Le donne musulmane di Srebrenica questo lo sanno e lo vivono. Molti non perdonano – e questo è umano – e non vi sono nè la classe politica nè gli uomini di Dio ad aiutarli a sciogliere i traumi, a far intravvedere uno spicchio di futuro, a far rifiorire campi, prati e fabbriche. Tra i vari medicamenti sarebbero necessari calore umano, affetto, fiducia e spirito di giustizia.Interessi di parte e rendite di posizione spingono invece a mantenere le ferite aperte, ad avvelenare anime già malate. Sarebbe importante che le memorie parallele delle due comunità, che mai si incontrano e si toccano, potessero trovare momenti di reciproco riconoscimento, che non significa comprensione, giustificazione, equiparazione delle colpe sulla bilancia. Riconoscere il torto ed il male procurato ad altri potrebbe aiutare ad abbassare la febbre. Ma per questo ci vogliono una forza ed un coraggio enormi, che non si possono pretendere da chi ha sofferto in tale misura e si sente solo, perso, privo di sostegno. E così l’orologio della vita rimane con le lancette immobili sull’ora della tragedia: la vita si è fermata in quel giorno, in quell’istante ed ha abbandonato l’anima di chi ha subito ed oggi è in vita. Morire restando vivi. Vivere intrappolati. A distanza di vent’anni, il racconto di ciò che è accaduto e che ha fratturato la vita di ciascuno fuoriesce di continuo nei dialoghi ed è così marcato che sembra che i fatti siano avvenuti solo il giorno prima. La compressione del tempo, l’annullamento della distanza temporale, l’ingombro del passato e l’inciampo continuo su di esso segnano il quotidiano.
Sembra quasi di poter giustapporre le immagini di Srebrenica e Chernobyl: silenzio e deserto laddove la vita fluiva. Silenzio e deserto che sono un paesaggio dell’anima, uno stato dell’anima. Martin Pollack definirebbe Srebrenica ed il Podrinje un paesaggio contaminato: un luogo sfregiato, a dispetto dello scorrere del tempo e del gioco della natura. L’orologio si è fermato per le generazioni che hanno vissuto; ripartirà per quelle nate dopo il conflitto? Per riflettere su tutto ciò ecco una selezione di foto – accompagnata da testi che costituiscono una bussola – che danno conto di un viaggio Around Srebrenica, dalla Moslavina croata sino alle colline che cingono Srebrenica. Foto che mostrano, foto che parlano, foto che ascoltano, foto che sentono, foto che domandano. In queste foto troverete fatti, emozioni, riflessioni, interrogativi. Interrogatele anche voi…
Gli autori
Alessandro Coccolo è ingegnere civile friulano e si dedica da anni alla fotografia documentaristica e al reportage. Utilizza corredi analogici su pellicola bianconero. Dal 2005 realizza mostre fotografie sul tema del confine, tra le quali Rezija terra di confine (2007), Brda (2011), Dalmatian Lands (2011), Dentro il confine (2012). È autore del libro fotografico Dentro il confine – scatti 2005-2012 (Gaspari, 2012), ed ha contribuito alla realizzazione del calendario fotografico “From Iron Curtain to Lifeline – The Central European Green Belt.” (2014). Alcuni dei suoi lavori si possono vedere su www.alessandrococcolo.it
Simonetta Di Zanutto è giornalista professionista, viaggiatrice e blogger. Lavora nel settore della comunicazione da quasi vent’anni ed è da sempre appassionata di Balcani. È autrice di Sofia e dintorni (Odòs, 2016), la prima guida turistica in italiano sulla capitale della Bulgaria. Ha pubblicato articoli sulla Bosnia-Erzegovina in Scoprire i Balcani. Storie, luoghi e itinerari dell’Europa di mezzo (Cierre, 2013) e sulla Bulgaria in Scoprire i Balcani. Storie, luoghi e itinerari dell’Europa di mezzo (Cierre, 2016). Il suo blog è www.ritaglidiviaggio.it