Da Milano ad Atene, via terra. Per ripetere l’avventura dei miei ricordi di bambina, quando mio padre caricò tutta la famiglia su una Volvo arancione con roulotte al traino per attraversare i Balcani e raggiungere la Grecia. Erano gli anni Settanta, internet era uno strumento per agenti segreti e i navigatori satellitari non esistevano. Ci si orientava con mappe e guide turistiche. Frugando fra le carte del babbo, però, è saltato fuori un libriccino che mi ha fatto modificare la rotta. La Guida rossa Albania, prima edizione 1940, quando il Touring club si chiamava Consociazione turistica italiana e i toni erano quelli trionfali del colonialismo fascista. Un piccolo gioiello, molto dettagliato per l’epoca, ancora utile se si considera la scarsità di pubblicazioni sulla destinazione.
Mio padre caricò tutta la famiglia su una Volvo arancione con roulotte al traino per attraversare i Balcani e raggiungere la Grecia
«Situata tra vette scintillanti di nevi e la costa adriatico-ionica, l’Albania è un Paese di grande varietà geografica, con grandiosi fiumi, poetici laghi, forre selvagge, pianure e sonnolente lagune costiere. Una terra di forti contrasti fra una vita patriarcale e guerriera, che ricorda i tempi omerici, e città animose e progressive. Un Paese ricco di avvenire e vivamente suggestivo, che tiene sempre desto l’interesse di ogni turista». La Terra delle Aquile era appena stata annessa al territorio italiano e il proposito sembrava quello di invitare i viaggiatori ad andare a scoprirla. Cosa che non successe né allora, per lo scoppio della seconda guerra mondiale, né per i quarant’anni che seguirono del regime comunista di Enver Hoxha, che intrappolò il Paese serrandone i confini fino alla sua morte, nel 1985. Con la mia famiglia, infatti, nel 1975 rinunciammo a Tirana, risalendo dal Montenegro verso la Macedonia per raggiungere finalmente la Grecia. Oggi le cose sono molto cambiate e per l’Albania è arrivata addirittura la consacrazione come meta più interessante del 2011 dalla Lonely Planet. Attraversare l’Albania, è deciso. Alla scoperta di un vicino troppo lontano. Separato dall’Italia da un mare interno che si attraversa in poche ore di traghetto o in un’ora e mezza d’aereo, ma che ancora suscita inquietudine in molti, soprattutto se a viaggiare sono due donne sole. «Andate in cerca di guai!». «State attente, vi ruberanno l’auto». «Perché in Albania? Non c’è niente laggiù». I commenti non erano certo incoraggianti. Le nostre guide e i racconti delle poche persone che in Albania c’erano state davvero, però, invitavano a partire.
«Benvenute». Dopo la lunga fila sotto il sole alla frontiera, il sorriso e il perfetto italiano del doganiere ci mettono a nostro agio. Nessun visto, basta la carta d’identità, mentre si deve acquistare dopo il confine un’assicurazione auto temporanea con una compagnia albanese. Le condizioni delle strade, a parte sporadiche eccezioni, sono pessime; trascurate per molti anni da un regime che consentiva l’utilizzo dell’automobile solo ai membri del partito. Non mancano però i distributori di benzina, ma soprattutto furoreggiano i lavazo, autolavaggi pronti a far brillare le numerose Mercedes ultimo modello che arrancano fra le buche. Uno status symbol per chi ha fatto fortuna all’estero e ritorna in patria durante le vacanze. Se il Gps si perde subito e i cartelli sono pochi, per orientarsi non restano che le cartine e le indicazioni dei passanti. Ed ecco la prima sorpresa: gli albanesi capiscono e molti parlano bene l’italiano. È la prima prova tangibile della vicinanza fra Italia e Albania. Un legame di vecchia data, rafforzato dalle migrazioni recenti e dalla passione per la nostra televisione. Qui sono tutti molto disponibili e hanno una gran voglia di chiacchierare. Durante la sosta a un baretto lungo la strada conosciamo Alma, un’insegnante i cui figli vivono a Trento. Racconta che alla fine degli anni Ottanta i ragazzi albanesi rischiavano la prigione per vedere di nascosto il Festival di Sanremo. Noi lo snobbavamo come antiquato e noioso, mentre per i nostri coetanei dall’altra parte dell’Adriatico era la finestra su un mondo che potevano solo immaginare. Sul palco tra i cantanti anche Anna Oxa, cugina senza le due acca di troppo del loro dittatore.
Dopo la lunga fila sotto il sole alla frontiera, il sorriso e il perfetto italiano del doganiere ci mettono a nostro agio. Nessun visto, basta la carta d’identità
Arriviamo a Tirana in tempo per fare due passi nel quartiere di Blloku e unirci ai nuovi ricchi che sorseggiano l’aperitivo nei locali all’aperto. Giovani eleganti, musica, ottimo espresso e insegne che strizzano l’occhio all’Italia. Il quadrilatero più alla moda si fa notare per la pavimentazione lastricata. È l’ecosistema dell’élite che oggi, come ai tempi del regime comunista, quando l’ingresso era riservato alla classe dirigente, si distingue dalla baraonda polverosa che regna nel resto della città. Fondata nel 1614 dai turchi e scelta come capitale nel 1920 perché più centrale di Durazzo, Tirana conserva poche tracce del passato. Gli ampi viali, le facciate degli edifici d’epoca fascista alternati a quelli del periodo comunista, vecchi condomini dipinti con colori sgargianti e l’interessante Museo nazionale di storia. Nella piazza principale il traffico ruota attorno alla statua equestre di Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe che difese l’Albania dalla conquista dell’Impero turco. Ha sostituito quella alta dieci metri del compagno Enver Hoxha, abbattuta dalla folla nel 1991, mentre è rimasta al suo posto la piramide: progettata dalla figlia del dittatore per diventare un museo, ospita una discoteca e un centro congressi. A circa 120 chilometri dalla capitale, Berat ci accoglie «con le sue case schierate quasi ad anfiteatro, le quali con le bianche facciate e le numerosissime finestre, sembrano la realizzazione di un disegno ordinato e grazioso, anziché gli edifici di un centro che ha vissuto secoli di civiltà tanto diversi e periodi di storia assai travagliati». Dai tempi della descrizione della Guida Rossa poco è cambiato nella città dalle mille finestre, preservata come un museo a cielo aperto dal passato regime. Le auto arrancano a fatica nelle stradine ripide che conducono alla Cittadella, scivolando sulle pietre lucidate a specchio dalla storia. Meglio salire a piedi, per scoprire un affascinante dedalo di cortili racchiuso nelle mura del quartiere cristiano ortodosso, dove delle originarie venti chiese oggi ne rimangono una dozzina. Nella più grande si trova il Museo Onufri, con le preziose icone del XVI secolo, mentre il Museo etnografico appena sotto il castello consente di visitare una casa tradizionale del XVIII secolo. A testimonianza della pacifica convivenza dei culti, in un Paese dove in realtà ci si occupa poco della religione, ai piedi della stessa collina si trova il quartiere musulmano di Mangalem, dominato da tre antiche e grandiose moschee.
Qui nella bella stagione le temperature possono essere molto elevate e, per sfuggire alla canicola, decidiamo di rifugiarci per pranzo nelle pinete alle pendici del monte Tomori, prima di riprendere il viaggio verso la valle del Dhrino. È così che conosciamo Zamo, tornato in patria da imprenditore con l’entusiasmo di chi vuole ricostruire il suo Paese, dopo essere stato quasi vent’anni in Italia. È il fondatore della prima associazione di rafting albanese, uno sport con grandi potenzialità in un contesto naturale così vergine. Saremmo tentate di provare una discesa, ma il viaggio è ancora lungo, il Sud ci aspetta. Se Berat è ben conservata, nella città vecchia di Argirocastro l’orologio sembra essersi fermato, merito del particolare riguardo che Hoxha dimostrò per la sua città natale. Oggi la sua casa è diventata un museo e nei negozi si trova perfino qualche souvenir con l’immagine del dittatore. La maggior parte delle caratteristiche case fortezza, che un tempo ospitavano interi clan familiari, sono ben tenute e alcune sono rinate come splendide guest house. È in fase di restauro anche la casa dello scrittore Ismail Kadare, che a Argirocastro ambientò La città di pietra, tra i suoi libri più famosi. Rimaniamo impressionate dalla visita del grande castello, a lungo utilizzato come prigione e poi come Museo delle armi, con la minacciosa parata di carri armati schierata nelle viscere e lo scheletro di un aereo americano, fantomatica spia secondo la propaganda di regime.
Dopo aver attraversato campi coltivati, superato montagne, scansato mucche e cani randagi ed esserci perse più volte, avvistiamo finalmente lo Ionio. Dall’alto della strada costiera che proviene dal parco nazionale del passo di Llogaraja appaiono invitanti mezzelune bagnate dal mare turchese
Dopo aver attraversato campi coltivati, superato montagne, scansato mucche e cani randagi ed esserci perse più volte, avvistiamo finalmente lo Ionio. Dall’alto della strada costiera che proviene dal parco nazionale del passo di Llogaraja appaiono invitanti mezzelune bagnate dal mare turchese. La prima tappa è Dhërmi, la più mondana fra le località balneari albanesi. Una folle sequenza di pensioncine e locali notturni senza strada asfaltata, che affacciano direttamente su due chilometri di sabbia fine e ciottoli, bianchi e perfetti come uova. Nel fine settimana, è meglio evitare le sistemazioni troppo centrali e prenotare in anticipo. Altrimenti gli unici alloggi al coperto disponibili rischiano di essere le migliaia di bunker che il delirio di Hoxha ha disseminato per tutta l’Albania. Piccole cupole mai servite per fare la guerra, ma come rifugi per i innamorati (e a volte come bagni), che qui hanno dipinto a colori sgargianti. Scendendo verso Saranda si incontrano altre belle spiagge, come l’isolata Jal a otto chilometri da Dhërmi, e la tranquilla cittadina di Himara. Saliamo al castello per ammirare il panorama della spiaggia di Livadhi prima di un tuffo a Llamana, un angolo di paradiso lungo il tragitto che conduce alla magnifica insenatura di Porto Palermo, con la grotta ex riparo per i sommergibili, le rovine della fortezza di Ali Pasha e una fantastica taverna di pesce.
La vicinanza con la Grecia si respira nell’aria e nelle giornate limpide si intravedono le isolette a nord di Corfù. Decidiamo di evitare Ksamil, molto frequentata per i suoi isolotti raggiungibili a nuoto, e puntiamo su Saranda. La nostra delusione per i disastri della speculazione edilizia è compensata dall’incanto del sito archeologico di Butrinto (a 18 chilometri dal centro città). L’insediamento – che fu prima ellenistico, poi romano e infine bizantino – sorge su una penisola protetta da un parco nazionale. Dopo l’arrivo dei primi archeologi italiani nel 1927, ci vollero dodici anni di scavi e notevoli investimenti per far riemergere i suoi tesori. Il teatro greco poteva accogliere fino a 2.500 spettatori ed è perfettamente conservato, mentre il velo di sabbia che protegge i mosaici delle terme romane e del battistero paleocristiano viene sollevato soltanto in occasioni speciali. Ammirando le arcate della basilica bizantina, si capisce la stratificazione della storia in questo crocevia di culture. Saliamo al castello che ospita il museo, dove un tempo c’era l’acropoli, per ammirare il panorama del lago salato in cui si coltivano le cozze di Saranda. Una minuscola chiatta traghetta le auto. Sull’altra riva è già Grecia. Siamo arrivate alla fine dell’Albania, ma la scoperta è appena cominciata. Il vicino ora è un po’ meno lontano e la Terra delle Aquile ha molte altre storie da raccontare.