Sono circa le 12 quando arrivo a Mostar, fa un caldo torrido e la città mi sembra deserta. Lascio la stazione e mi incammino alla ricerca di un letto per la notte. Trovo posto in un piccolo ostello a gestione familiare.
Giungo in centro e un via vai di persone mi circonda, i bar sono pieni di uomini e donne che bevono caffè e parlottano. I numerosi edifici che supero sono tutti crivellati di colpi, probabilmente schegge di mortai o proiettili di armi di grosso calibro. A 16 anni di distanzi restano ancora là, sotto gli occhi di tutti, i segni della tragedia che si è consumata in
Avventurandosi all’interno, oltre ai detriti e immondizia è ancora abbastanza facile trovare numerosi bossoli. Nessuno ancora è stato in grado di recuperare quei luoghi, di restituirli ad una vita migliore, ma forse è bene così. Un monito costante per le future generazioni.
Miran è un ragazzo di 32 anni, è lui il gestore e proprietario del mio alloggio. Un tipo simpatico ed intelligente che ama parlare e conoscere persone. Nel piccolo e grazioso giardino del suo ostello, dove su un muretto campeggiano delle granate, mi racconta la sua storia.
Poco più che ragazzo durante il conflitto ricorda bene quei difficili momenti. Non ha combattuto ma ha dato il suo contributo portando viveri, medicinali e aiutando i feriti. Il suo volto diventa serio e triste quando mi parla dei parenti e degli amici che non ci sono più, uccisi in un conflitto fratricida. Uomini e donne che fino a poco tempo prima vivevano insieme, in pace ed armonia, in un unico grande paese e che poi furono travolti da una follia etnica e nazionalistica.
La tragedia non riguarda solamente gli anni della guerra ma anche i seguenti. Il suo racconto prosegue infatti con il periodo della difficile e dura ricostruzione in cui svolse il servizio militare. La sua rabbia esplode quando mi parla dell’Onu e dei caschi blu, pronti ad offrire qualche migliaio di dollari al mese a chi si fosse offerto di partecipare allo sminamento di zone isolate e fuori città, mentre a Mostar uomini e donne continuavano a morire sulle mine antiuomo. Risentimento e dolore si alternano sul suo volto, “io volevo aiutare i miei concittadini, salvare vite umane, ma a loro questo non importava”. Ormai non riesce più a trattenersi, il pensiero va alle persone care perse e sulle sue guance scorrono le lacrime.
“Quelli si che erano bei tempi”, la repubblica Jugoslavia è rimpianta e ricordata come un periodo felice. “Potevamo girare tranquillamente in tutta Europa ed eravamo rispettati come popolo”. “Lavoro, casa, istruzione, sanità, avevamo tutto e non importava se eri serbo, croato o musulmano, si viveva insieme con rispetto ed armonia e tutti con le stesse opportunità”. Ringrazio Miran per la preziosa chiacchierata, uno sguardo di intesa poi la stretta di mano e gli auguri per una vita felice.