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Poche decine di chilometri dopo la capitale, usciamo dalla strada tangenziale che collega Sarajevo col nord del paese per intrufolarci nella cittadina di Visoko e visitare così uno dei siti archeologici più controversi al mondo, il sito delle cosiddette “piramidi” di Bosnia, che raggiungiamo dopo aver fermato l’auto in un parcheggio strategicamente attrezzato con chioschi, bar, negozi di souvenir, il tutto organizzato in maniera molto “balcanica”, all’insegna del più autentico fai-da-te e perlomeno lontano da ogni ipocrisia pubblicitaria: ciò che vedi è ciò che è, senza lustrini e paillettes, senza qualcuno che venda un’immagine falsa e costruita ad uso e consumo del turista medio. D’altra parte, i turisti da queste parti passano di rado…Perfino la nostra “guida” (rigorosamente non ufficiale!) è perfettamente coerente con il contesto: un ragazzino di nemmeno 10 anni, che, in cambio di qualche spicciolo, non esita ad accompagnare noi (ed altri prima di noi…) lungo la ripida salita che ci conduce a metà circa della collina piramidale che sovrasta Visoko e che è stata ribattezzata “Piramide del Sole”. Si tratta di una formazione effettivamente inquietante per il suo aspetto a forma di piramide su base quadrata incredibilmente regolare, e soprattutto per le sue dimensioni colossali: 220 metri di altezza e 365 metri per lato, con una pendenza precisa di 45° per ogni lato. Abbiamo visto e fotografato layers di roccia simili a gettate di calcestruzzo, presunte pavimentazioni dalle forme regolari estese centinaia di metri quadrati e situate sopra quelle che sembrano enormi cavità artificiali, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con alcuni giovani archeologi che ogni estate partecipano, su base rigorosamente volontaria, alla campagna di scavi, abbiamo, si può dire, “toccato con mano”…effettivamente, il luogo si presta a potenti suggestioni, le quali inducono a dire che la collina “è” ciò che sembra, la regolarità delle forme e delle geometrie rapisce gli occhi, mentre le dimensioni ciclopiche sconvolgono la mente, se ipotizziamo anche solo per un istante che possa trattarsi di un manufatto umano…

Riscendiamo dalle ripide fiancate della Piramide con tutte le perplessità del caso, combattuti tra suggestione e scetticismo, ma determinati a seguire nel tempo l’evolversi e gli sviluppi della campagna di ricerca e scavo, e torniamo a ricucire i fili del nostro viaggio proseguendo verso nord, lungo strade polverose e zingare, disabitate ma piene di tutto, fabbriche dismesse, praterie d’erba selvaggia e greggi, mercati all’aria aperta dove ondeggiano, battute dal vento, enormi pelli animali e altri oggetti di vero artigianato locale, solo che non si sa da quale luogo provengano, strade insomma sulle quali anche i nativi sono pellegrini. Strade fatte così, nate per connettere e non per stabilirvisi, dove la terra non ha radici se non le sue proprie, dove la bellezza straniera dei luoghi è tale perché non appartiene a nessuno in particolare. Strade apolidi, senza cittadinanza, che avvertono il viandante di non prendersi mai troppa confidenza con queste terre, ma che al contempo sono pronte a stupirlo con risorse inaspettate in caso di necessità: in una situazione tipicamente balcanica, ci troviamo ad un certo punto costretti a scegliere se percorrere la via ordinaria asfaltata oppure una scorciatoia sterrata immersa nel bosco che ci avrebbe fatto risparmiare oltre un’ora di cammino, ma, dopo aver scelto la seconda alternativa, scopriamo che le indicazioni sui tempi di percorrenza avevano un margine di tolleranza, per così dire, molto “tollerante”, sicchè, in luogo dei 10 minuti scarsi di tempo con cui una vecchina al margine della strada reclamizzava la via sterrata, ci ritroviamo ad uscire dal turbine di polvere e sassi solo dopo un’ora abbondante, con l’auto che emerge dalla nube opaca sotto gli occhi per nulla sorpresi dei rari passanti. Ma proprio grazie a questo imprevisto, abbiamo occasione di visitare angoli di paesaggio meravigliosi, mentre la necessità di chiedere informazioni sulla correttezza della via intrapresa ci porta a conoscere un aspetto dell’anima bosniaca che magari non risalta immediatamente nei centri urbani: la dolcezza e lo sguardo franco e sinceramente curioso, la gentilezza dei modi. Gentilezza e cordialità che in effetti non trovano in Bosnia, in generale, la loro massima espressione, non tanto per ragioni imputabili ad una particolare ostilità caratteriale delle genti di qui, quanto piuttosto per ragioni storiche, che hanno impedito l’espansione in questi luoghi della cosiddetta “etichetta” delle relazioni, un codice non scritto di buone maniere spesso formali e vagamente ipocrite…a Travnik, prossima tappa del viaggio, ed ancor più a Bihac, faremo i conti per davvero con un certo modo di gestire i rapporti umani lontano dai canoni tipicamente occidentali.

Travnik

Giungiamo a Travnik poco prima di mezzogiorno e, dopo una visita fugace alla fortezza medievale, restaurata in epoca recente secondo una logica non sempre attenta all’originalità dei reperti ma con risultati indubbiamente meravigliosi nell’insieme (piccola nota a margine: nei Balcani si bada al sodo e poco al dettaglio…nel bene e nel male), dopo esserci beati gli occhi con lo straordinario panorama fatto di ripidi boschi e minareti, e dopo aver visitato solo dall’esterno la casa natale di Ivo Andric, purtroppo chiusa a quell’ora, ci dirigiamo a pranzo in un suggestivo locale musulmano situato a cavallo di un piccolo ma tumultuoso corso d’acqua con relativo immancabile ponticello: l’accoglienza da parte del personale è a dir poco fredda, la disponibilità alla comprensione del nostro stentato croato è inesistente, ma questo non ci turba, un po’ perché ci abbiamo già fatto l’abitudine, un po’ perché in effetti stiamo parlando di modalità di relazione diverse da quelle di casa nostra (non dico peggiori, solo differenti), un po’ perché, volgendo lo sguardo agli altri tavolini del ristorante scorgiamo solo… famiglie musulmane, le cui componenti femminili indossano tutte rigorosamente il velo d’ordinanza! Al che, Alessandro ed io giriamo la testa con aria fintamente accusatoria verso la nostra compagnia di viaggio nonché mia compagna nella vita, Sara, priva dell’accessorio di moda da queste parti e oltretutto bionda di un biondo molto nordico, scaricando su di lei comicamente la responsabilità di tanta freddezza?.

Travnik

Il tempo stringe, la tabella di marcia non può subire ritardi eccessivi, ragion per cui lasciamo Travnik con il rammarico di non averla potuta conoscere più in profondità, e attraversiamo veloci gli stretti fondovalle della Bosnia centro-settentionale, ammirando incantati, dall’auto, veri gioielli storico-urbanistici come Jaice. Poco dopo, il paesaggio si trasforma aprendosi in una vasta pianura bucata da centinaia di doline e completamente privo, per più di 50 km, della minima traccia di insediamenti umani o di coltivazioni o di allevamento: è una sorta di luna terrestre, verdissima ma probabilmente poco fertile, dove l’assenza è, in fondo, l’unica vera presenza. Emana, da questa assenza naturale, un fascino strano, quasi primordiale, un luogo dove inizia il tempo, una verginità priva di storia, dove il cuore e i pensieri si riposano un po’, smarriti sulle basse frequenze del tramonto.. E’ sera ormai, il meglio del giorno, e forse anche del viaggio, è alle spalle, mentre, ignari, approdiamo a Bihac, ultima notte oltre il confine orientale…

Eppure l’ingresso in città non ci aveva dato un’impressione negativa. Certo, così, a prima vista, nulla di eccezionale, ma poteva starci, eravamo alla fine di un percorso, carichi di chilometri ed esperienze, con i sensi e le emozioni a tal punto stimolate da rendere accettabile, in fondo, una notte anonima in un luogo anonimo…E pensare che quest’ultima notte l’abbiamo trascorsa, paradossalmente, nelle stanze più confortevoli e sui letti più accoglienti mai incontrati nel corso dell’intera avventura! L’Hotel Park, in pieno centro, edificio e arredi in perfetto stile anni ’70 ma curatissimi, atmosfere d’oltre cortina, 300 stanze molto grandi, silenziose e praticamente tutte libere tranne le due che ci ospitano, personale inspiegabilmente numeroso, sembra attendere clienti che, come Godot, non arrivano mai…Comunque, soddisfatti di esserci meritati un’ultima notte “deluxe”, sistemiamo i bagagli e ci avviamo fiduciosi verso il centro, convinti che anche qui andremo alla scoperta di qualcosa di nuovo…

In effetti, anche se non era esattamente ciò che speravamo, qualcosa di nuovo e di completamente diverso rispetto alle esperienze dei giorni precedenti, l’abbiamo scoperto: l’abbiamo subito ribattezzata “l’anima oscura dei Balcani”. Ecco, in una sola serata Bihac ha saputo offrirci una sublime sintesi delle peggiori pulsioni emotive inserite in un contesto urbano di raro squallore architettonico e culturale: non un edificio interessante da vedere, non un manifesto di qualsiasi natura che avvertisse il pellegrino che, sì, anche qui ci si può fermare e godere di qualcosa di bello, non un cinema, un teatro, un concertino in qualche locale, non un viso gentile o una parola cortese da parte dei pochi indigeni con cui siamo entrati in contatto…E’ sabato sera, ma sembra che qui si tenti di sbrigare il tempo libero come fosse un’ incombenza fastidiosa, la gente cammina frettolosa e con lo sguardo non troppo alto, non si sa mai: camminando per le strade del centro, terribilmente adornate con feroci luminarie al neon che puniscono lo sguardo di chi osi alzare gli occhi, ho la netta sensazione di percepire una insinuante e appiccicosa frequenza di paura, e per una buona mezzora mi chiedo il perché, arrivando a dubitare persino del mio equilibrio mentale…cammino continuando a guardarmi le spalle, finchè capisco che il mio sesto senso non mi sta ingannando, al contrario, mi sta mettendo in guardia. Appena questa comprensione raggiunge il livello della coscienza, arrivano, tutte insieme, le conferme della realtà, in una serie di vortici che centrifugano centinaia di persone risucchiandole o sputandole violentemente in un altro punto della città: nel giro di tre isolati assistiamo a due risse collettive tra giovani maschi locali che ci spingono a rifugiarci in un’altra strada, attraversiamo un ponte in mezzo a gente che corre verso un luogo o scappa da esso, incrociamo individui che passeggiano come se niente fosse dondolandosi sulle spalle delle robuste mazze da baseball (vero!), il tutto condito da una persistente violenza sonora fatta di motori truccati, sgommate intimidatorie, deiezioni acustiche, deflagranti come autobombe, spacciate per musica commerciale, richiami tribali scambiati tra esponenti di branchi diversi da una riva all’altra di questo fiume chiamato strada… Predatori in cerca di preda: ognuno, qui, volente o nolente, è costretto ad assumere uno dei due ruoli, anche solo per scappare da questa bolgia schizzata e rinchiudersi in casa. Ma c’è chi l’abito della preda se lo mette addosso per scelta consapevole e partecipa alla caccia: le ragazze. Certo, non tutte, ma quasi tutte sì (le altre camminano veloci guardandosi i piedi), in questo sabato sera che vomita emozioni malate. Quasi tutte alte, avvenenti, sexy-vestite, sguardo alto e provocatorio, sfilano a gruppetti in mezzo all’orda barbarica apparentemente prive di paura, come se sapessero che l’incendio triste di questa sera si accende e si placa per loro, le prede. Per loro si fa a botte, per loro si sgomma, per loro si spaccia merda sonora tagliata male, per loro si agitano mazze e manganelli e altre protesi falliche, sempre per loro presumo che tra poche ore tutto si spegnerà, regalando un po’ di silenzio a questa desolazione. Ma lo vedi che è una recita obbligata, la vedi sulle loro maschere truccate la solitudine, la mancanza di alternative, l’assoluta impossibilità/incapacità di rapportarsi al mondo maschile, e prima ancora alla propria femminilità, in modi che siano diversi da quelli che hanno visto perpetuarsi in famiglia, nella società, anno dopo anno, generazione dopo generazione, la sorella, la madre, la nonna, e sempre più indietro nel tempo, ma sempre ferme allo stesso punto di prima, di sempre. Prede, sempre. Con l’unica differenza che nel 2011 è loro concesso (o dovrei forse dire “imposto”?) di esibire ,come fanno i maschi con le loro minacciose prolunghe genitali, le proprie armi di seduzione, incendiando la notte… Tacchi alti, scollature, ritagli di carne scoperta tra brandelli di minigonne, il corpo esibito che veste il vestito e non il contrario. Adrenalina pura per gli energumeni locali, che possono così iniziare un rito antico che parla il linguaggio di un codice animale: io, maschio, mostrare, competere, conquistare, sanguinare, vincere o morire, tu, femmina, oggetto dello spettacolo, mostrare, competere, conquistare, morire a volte, tacere sempre.

Litorale croato

Andiamocene. Ce ne andiamo, negli occhi la repulsione, nello stomaco una pannocchia di granoturco bollita come cena, e due birre come anestetico, con la seconda servitaci malvolentieri visto che qui, alle 23 di sabato sera, sembra strano servire volti strani, e stranieri, come evidentemente appaiono i nostri.

Andiamo. La mattina successiva, di buon’ora, raccolti armi e bagagli, riprendiamo il viaggio, frontiera, Slovenia, frontiera, Venezia, la laguna, i vecchi casali assorti nelle grandi campagne di terraferma, mentre la voce randagia di Peter Gabriel in Central Park, uscendo dagli altoparlanti, entra diritta nel cuore e nella storia di questo viaggio, andando incontro al sole che muore lento e tranquillo laggiù, da qualche parte verso Ovest…a casa.

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