Terzo giorno
Ci si sveglia presto, i trasferimenti cominciano. Destinazione finale Kraljevo con varie tappe intermedie durante la giornata, la prima delle quali il Tempio di San Sava. Ci arriviamo alle 8,30 della mattina da un vialetto laterale che conduce al sagrato della più grande cattedrale ortodossa dei Balcani. La cattedrale venne eretta nel luogo dove nel XVI gli ottomani bruciarono le spoglie di San Sava per creare smarrimento e scoramento nella popolazione e cancellare un simbolo identitario e forte, evocato e venerato dalla componente serba. Sebbene il progetto di erigere la cattedrale risalga all’ultimo scorcio del 1895, la costruzione del tempio prende l’avvio nel 1935 per concludersi poi negli anni ’80, dopo varie interruzioni dovute a congiunture storiche e a mancanze di fondi. La cattedrale vista dall’esterno trasmette un senso di compiutezza grazie alla sua veste di travertino bianco e all’enorme cupola posata nel 1989. E, proprio riguardo la posa della cupola, si narra che le grandi manovre di ingegneria idraulica e l’attenzione mediatica legata all’evento, abbiano in qualche modo rappresentato una sorta di prova di forza della Serbia verso gli altri stati dell’allora Federazione Jugoslava, prossima alla dissoluzione. Tanto appare definitivo e solido l’esterno, tanto si mostra, invece, incompiuto l’interno. Dominano i toni grigio polvere del cantiere, le reti, le impalcature, i tessuti protettivi alle pareti, i rumori degli attrezzi utilizzati dagli operai. Personalmente mi riesce difficile immaginare raccoglimento e preghiera in un contesto come questo e mi chiedo se e quando il tempio di San Sava riuscirà a essere definitivamente compiuto.
Di nuovo in pullman alla volta di Oplenac, località del Comune di Topola, dove si trova il mausoleo della dinastia dei Karadjordjevic, ascesa nuovamente al trono agli inizi del ‘900 dopo il massacro dei rivali Obrenovic con il sostegno degli alti ranghi dell’esercito. Il mausoleo è ospitato nella cripta della Chiesa di San Giorgio, i cui colori e il cui impianto ricordano una miniaura della Cattedrale di San Sava. Sul sagrato scolaresche di bambini con gli zainetti colorati, le felpe legate in vita. Chi gioca, chi fa merenda sulle panchine, chi si fa richiamare dalle maestre come in qualsiasi gita scolastica che si rispetti.
Lasciamo i ragazzi vocianti al sagrato ed entriamo. Al suo interno la chiesa è molto luminosa, anche grazie alle finestre ricavate nella cupola principale dove è riprodotta l’immagine del Cristo Pantocratore copia di quella presente nel Monastero di Gracanica, in Kosovo. La luce si infrange sulle tessere multicolori dei mosaici che ricoprono le pareti della chiesa, riproduzioni di affreschi risalenti al medioevo serbo le cui copie vennero portare a Oplenac per poterne ricalcare le immagini, in un effetto davvero notevole. Ma è la cripta il luogo dove la combinazione luce-mosaico appare particolarmente suggestiva: le tombe dei Karadjordjevic e il corridoio di accesso, così come le scale, sono illuminate da lampade con i vetri colorati e, grazie a quel gioco di luci, il mausoleo non sembra per nulla tetro. L’oro e i dettagli dei mosaici risaltano particolarmente e sembrano quasi ammiccare a noi visitatori per invitarci a restare ma il tempo stringe. Un breve giro nel parco della Chiesa, una visita toccata e fuga a quella che era la residenza in loco di Pietro I, ora piccolo museo fotografico, e si riparte.
La prima sosta lungo la strada è presso la casa norvegese, un improbabile costruzione dalle sembianze di nave vichinga. È primo pomeriggio, il caldo comincia a farsi sentire, Leonardo dà il via alle spiegazioni sotto alcune betulle: l’edificio, assemblato da manodopera locale con il legname donato dal Governo norvegese, ricorda la detenzione e la morte di antifascisti serbi e della regione di Gornji Milanovac nei campi di concentramento nazisti in Norvegia. Al primo piano dell’edificio si trova una sala ristorante e, al secondo. una mostra fotografica a testimonianza delle drammatiche vicende degli internati. Fra le pareti ricoperte di legno, le finestre sigillate e la sensazione di smobilitazione incombente aleggia un caldo immobile e stantio che pare di stare chiusi in una stiva soffocante. Guadagnata l’uscita, si sale sul pullman già in moto e via verso la visita del primo monastero.
Il monastero di Žiča appare in lontananza seminascosto sopra una collina. Ai suoi piedi una rilassante distesa di prati, un tempo terreno agricolo di pertinenza del complesso. Parcheggiato il pullman, raggiungiamo lo il piazzale antistante l’ingresso. La luce è quella del tardo pomeriggio, le ombre si allungano davanti alla torre in pietra di entrata al monastero, la vallata di fronte langue in questo anticipo di tramonto ma nulla lascia presagire la suggestione che accoglie il visitatore una volta in chiesa nel bel mezzo della preghiera serale.
Sui banchi dei fedeli le poche suore anziane dagli abiti neri e dai visi un po’ arcigni che vanno e vengono fra lo spazio per la preghiera e l’iconostasi, a supportare il Pope durante la celebrazione. In tutta la chiesa l’incenso del turibolo mosso in continuazione dal Pope al ritmo di invocazioni e canti condivisi con altre suore e novizie sedute nei banchi. Su tutto il baluginio delle varie candele che illuminano la celebrazione, quelle votive e quelle accese lungo i bordi del lampadario dorato che pende dal soffitto sopra la zona della celebrazione. E poi gli affreschi del XIII XIV secolo rimasti aggrappati alle pareti nonostante le alterne vicende subite dal monastero fra distruzioni e rinascite. Terminata la preghiera le suore si affannano a spegnere candele e tirare tendine, rassettando con aria severa tutto il rassettabile per poi sciamare in silenzio verso l’uscita.
Solo allora Milan, il nuovo accompagnatore del gruppo che affiancherà Leonardo in questa seconda parte del viaggio, ci introduce nelle due cappelle laterali rimaste pressoché intatte nel corso dei secoli. Nell’ambiente raccolto si osservano ancora affreschi quasi millenari e, nonostante si respiri da subito un’umidità che ti entra nelle ossa, una breve visita è sicuramente dovuta. Usciamo alla spicciolata e ci disperdiamo. La luce del sole si infrange sul rosso delle pareti del monastero, così dipinto in ricordo del sacrificio dei martiri serbi, e sul verde acceso dei giardini.
Il pensiero di lasciare Žiča risulta poco invitante così proseguiamo nell’esplorazione, attratti dalla gradinata sconnessa, stretta tra due muretti altrettanto sconnessi, affacciata sul piazzale. Nella piccola spianata sovrastante troviamo la casa del custode, il cimitero del monastero e, poco più sotto, il chiostro con le celle delle monache. Le pietre tombali, risalenti a varie epoche, sono inserite in un contesto vitale: i giochi dei bambini del custode sono sparpagliati un po’ ovunque, da un albero pende un’altalena artigianale assemblata con assi e funi e i panni stesi ad asciugare sopra lo stendino confermano la normale quotidianità.
Salutiamo Žiča e la sua spiritualità per certi versi così terrena e ripartiamo alla volta di Kraljevo. Il pullman ci lascia nel parco di fronte all’albergo, un moderno edificio arancione dalle linee ardite, opera di due architetti piuttosto famosi, stando alla targhetta affissa a uno dei pilastri. Sistemati i bagagli, ci avviamo per la cena. Attraversiamo il centro di Kraljevo ricavando l’impressione di una cittadina ancora attiva seppur sottotono. Milan ci spiega che il nome della città deriva da “kralj”, re, in quanto nel vicino monastero di Žiča si erano tenute numerose incoronazioni dei reali. Ai tempi dell’unità jugoslava, Kraljevo era un importante punto di riferimento per gli sport invernali praticati sulle montagne circostanti. All’epoca, oltre al turismo, la cittadina vedeva gran parte degli abitanti impiegati nelle numerose industrie del circondario, ora dismesse. Ma la divisione della federazione jugoslava, prima, e la guerra poi, hanno reso Kraljevo terra di forte emigrazione verso i paesi europei e non solo. I giovani procedono negli studi per ritrovarsi spesso senza lavoro e, paradossalmente, le famiglie sono aiutate economicamente dagli anziani, tanto che spesso le banche concedono loro prestiti e finanziamenti altrimenti negati a figli e nipoti.
Rifletto sul fervore e sul gran daffare dei giovani camerieri che ci servono la cena, mi ritrovo a pensare in generale a tutta quella generazione di giovani fermi ai blocchi di partenza in attesa di una congiuntura favorevole ai loro sogni e alle loro speranze. Mi incupisco, ma cerco di non darlo a vedere. Sarà il temporale a darmi una scossa, il solito temporale serbo che ci accompagna da quando siamo arrivati, nel tardo pomeriggio o in serata. La cena è praticamente finita e la serata pure: corriamo verso l’albergo sotto tuoni, fulmini e goccioloni.