Attraverso incredibili traiettorie linguistiche tipicamente balcaniche la parola turca Çardak è penetrata nell’ungherese, nel serbo-croato-bosniaco, bulgaro, macedone e greco.

Può significare torre, piano superiore o soffitta, magazzino o seccatoio (soprattutto per il mais), locanda di bassa qualità, situata di solito lungo una trafficata via di comunicazione o vicino a un fiume; ma dal termine Çarda deriva anche la musica che i Rom ungheresi suonavano in queste locande (le csardas) diventata col tempo una danza eponima ungherese… e si potrebbero trovare altri significati.

Non c’è indicatore migliore per descrivere “l’unicità plurima” di cui è impregnata la cultura balcanica, non c’è prova più lampante dell’inconsistenza di tutti i discorsi identitari nazionalistici che hanno fatto breccia tra ampi strati delle società di questa regione. In tutti i suoi significati la parola čarda, csardas, Çardak, čardaklija – un tipo di casa in Bosnia –, cognome o toponimo in Macedonia, si associa con l’inferiore e il più felice, declinato in chiave sia musicale che sessuale.


foto di Camilla de Maffei

Čarda-Çardak-csardas, la cui radice etimologica deriva forse dalla lingua Avara (črtog, čertog), quindi più alta e nobile di quella turca, denota un posto dedicato al riposo, al piacere e alla contemplazione del mondo – il miglior punto panoramico della casa: fondamentalmente il piacere provato da un voyeur nascosto.

Altri significati accordati a questo termine: balcone, terrazza, stanza delimitata da ampie vetrate, camera del padrone e anche casa di campagna, come le vikendice sparse attorno alle città dei Balcani. Il segno più importante del godimento insito in questa parola è la musica: nelle melodie del rebetiko greco l’uomo invita la donna nella sua čarda per godere insieme i piaceri dell’amore.

L’autrice

Nata a Belgrado il 18 gennaio 1948, 
tra gli anni sessanta e settanta 
partecipa ai movimenti studenteschi 
nati attorno al sessantotto jugoslavo. 
Dopo aver conseguito laurea e dottorato di ricerca in linguistica, inizia a pubblicare 
articoli e saggi in difesa della libertà di espressione e dei diritti umani. Dagli anni 
ottanta dedica la sua attività intellettuale al contrasto delle spirali nazionalistiche che stavano crescendo in Jugoslavia. 
A causa di alcuni articoli critici verso Slobodan Milošević e sua moglie Mirjana Marković, nel 1988 Svetlana Slapšak fu portata a processo: sebbene assolta, perse il lavoro, fu isolata dal resto del mondo accademico serbo, espulsa dall’Accademia delle scienze e delle arti in quanto unica membra a non aver firmato un documento con il quale si rompevano tutti i rapporti culturali tra la repubblica serba e quella slovena.

Tra il 1988 e il 1989 viaggiò 
instancabilmente attraverso i territori jugoslavi tenendo conferenze contro i venti di guerra che soffiavano sulla Jugoslavia. Quando nel 1991 iniziarono i primi scontri a fuoco in Slovenia, Slapšak si trasferì a Ljubljana, 
dove tuttora vive assieme al marito 
(l’archeologo Božidar Slapšak), bollata in patria come “traditrice” e “minaccia nazionale”. 
Dagli anni novanta inizia anche il suo impegno a difesa dei diritti delle donne. Dal 1996 insegna presso il Ljubljana Graduate School in Humanities, prestigiosa scuola di dottorato dove insegna studi di genere e antropologia dei mondi antichi. Collaboratrice del settimanale belgradese Danas a partire dalla caduta di Miloševic 
e del quotidiano sloveno Većer, nel 2005 è stata inserita tra le mille donne candidate al Nobel per la pace.

In Vojvodina e Ungheria le čarde sono soprattutto i luoghi dove si può sentire la musica Rom. In modo estensivo Čarda potrebbe forse indicare un luogo del peccato? Sicuramente sì, perché il nascosto è la parte integrante di tutti questi multiformi significati. Oltre alle sue declinazioni erotico-dionisiache la parola čarda, nel suo senso culturale e sociale, è un posto dove ci si diverte al riparo dagli sguardi indiscreti delle masse, proprio perché si tratta di un diletto contrario a forme di divertimento caste, approvate dai codici sociali del tempo.

Le čarde e la cultura delle čarde sono frequentate anche dalle classi superiori, come luoghi e tempi dell’illegale. Cornice naturale della produzione di sottoculture, čarda è simbolo di conflitti e  accordi – o più precisamente di negoziazioni sociali su cosa sceglieranno per sé gli strati sociali più alti della società nel loro diritto esclusivo ai piaceri della carne e dello spirito.

Per usare una metafora, lo stesso poliziotto che di notte paga musicisti e danzatrici rom affinché animino la sua terevenka (sbornia collettiva) con gli amici, il giorno seguente rimane impassibile vedendo i colleghi chiudere una csarda, arrestare e picchiare i musicisti, o in tempi più bui mandarli nei campi di concentramento. L’intera storia dei Balcani è caratterizzata da esplosioni di violenza contro vari tipi di sottoculture. Parallelamente però sono queste ultime ad aver sempre prodotto le forme comportamentali dominanti legate alla sfera del desiderio e del piacere.

In assenza di quei codici sociali e di quelle istituzioni che nell’Occidente europeo assicurano trasferimenti più complessi tra gli strati culturali superiori e inferiori, questa specificità dei Balcani è potuta sfumare negli stereotipi semplificatori che ricoprono la regione: “balcanofili” che credono di poter trovare nei Balcani emozioni e comportamenti autentici come pure “balcanoclasti” terrorizzati da essi, sono entrambi vittime di una percezione edulcorata delle culture sincretiche di queste terre.

Esiste allora una formula per comprendere i Balcani? Si, ma non è semplice.

Innanzitutto bisogna conoscere almeno una della lingue parlate in questa parte d’Europa; in secondo luogo, aggiungo, almeno due generi musicali dei Balcani. Le correlazioni tra le musiche balcaniche, in termini culturali, sono straordinarie. Quella che forse è la più famosa, il rebetiko greco, conserva tanti elementi della musica Rom. Jovan Tsaus, un popolare musicista di rebetiko degli anni venti e trenta del secolo scorso, era un immigrato proveniente dai Balcani centrali. All’altro estremo di questo spazio semantico, nella musica ungherese, è difficile trovare elementi che non siano di origine Rom.

Tutti questi tipi di musica tradizionale, dal rebetiko a quella ungherese, includendo la tamburaska di Vojvodina e Slavonia, la musica di Costantinopoli, lo stile anatolico o di Smirne, la sevdalinka bosniaca, le kantade adriatiche o i canti a cappella, sono tutte forme di musica dove l’improvvisazione è un elemento centrale, anche se in realtà tale peculiarità fuoriesce dai Balcani e si diffonde in tutta l’area mediterranea. Un paragone azzeccato che coinvolge la sfera delle sottoculture urbane è la musica americana jazz/blues o il tango. È la musica che dà il meglio di sé quando viene suonata per la propria anima.

Nel momento in cui alcuni esperti dell’Unesco vollero registrare il rebetiko originale, andarono a cercare il leggendario Vasilis Tsitsanis, scovandolo una sera nella cucina del suo locale, al termine dell’abituale concerto settimanale. Queste registrazioni di Tsitsanis, con una strumentazione ridotta al minimo e la sigaretta all’angolo della bocca contratta in un canto destinato solo a coloro che davvero amavano la sua musica, sono le migliori registrazioni esistenti.

Nelle čarde che conosco lungo il Danubio e la Drava, quando è notte inoltrata e la maggior parte degli avventori è già rincasata, questo è il momento dei repertori musicali ebbri di passione che si custodiscono solo per momenti speciali. Una di queste čarda è rimasta incisa nella mia memoria: è la Čarda “Čingi-lingi”, frequentata da bambina negli anni sessanta. Ci andavo con mia mamma e i suoi amici che già a quel tempo dicevano “non è più come una volta”. Di loro però non ci si poteva fidare: erano tutti ancora piccoli negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale, e sicuramente si ricordavano più dell’esperienza dei loro genitori che della propria.

Il Danubio è il 
"fiume della melodia". 
Lungo è l'elenco 
dei sincretismi musicali 
nati dall'eterno migrare 
dei popoli rom 
e dall'incontro tra questi e 
le tradizioni locali 
del bacino danubiano.

Quando in seguito mi capitava di tornare con la memoria al “Čingi-lingi”, o quando sentivo raccontare altre storie su di essa, il mio ricordo infantile trovava conferma: tutti parlavano di questa čarda da un punto di vista mitologico, senza un vero legame esperenziale. Perciò ritengo che sia giusto obbedire a questa usanza, e invece di raccontare un’esperienza personale, che a causa della mia giovanissima età e dunque dell’assenza di codici culturali non può essere elaborata sino in fondo, racconto un’esperienza altrui. Riguarda mio nonno, che purtroppo non ho mai conosciuto essendo morto molto tempo prima che io nascessi. “Il nonno Vlado non poteva essere altro che un Rom”, penso spesso guardando le sue foto. La sua professione – in vita fu un commerciante di successo – deve avergli permesso l’acquisto di un’altra, più “rispettabile” identità. Neanche quella comunque gli è stata d’aiuto a mantenere il senno della ragione, anche se questo è un dettaglio di secondo piano nella storia che sto per raccontare.

Il nonno Vlado era un grande edonista, conosceva tutte le migliori locande con annessi musicisti da Budapest a Zagabria, Novi Sad e Niš giù sino a Skoplje. Più a sud purtroppo non arrivò mai. Con tutti i musicisti parlava nella loro lingua madre.

I suoi tour notturni nella città natale, a Osijek, iniziavano sempre al Royal, che oggi è un triste residuo di un locale K&K di un tempo, e finivano alla già citata čarda “Čingi-lingi”, oggi solo una rovina, un triste monumento dell’ultima guerra degli anni novanta.

Nelle critiche al suo stile di vita che sentivo dalla nonna, era la frequenza di questi tour a essere rimproverata: la necessità di intraprenderli non si metteva mai in discussione. Amico di Ebrei e Rom, colpevole di possedere un’identità “sbagliata”, il nonno fu tra i primi ad essere ucciso dopo la fondazione del NDH – lo Stato Indipendente Croato. Gettato nella Drava, il suo corpo emerse nel Danubio a Bela Crkva – fatalmente un altro posto famoso per le sue čarde e la sua musica.

Se quindi dovessi definire la mia identità culturale e legarla ad un luogo, la čarda “Čingi-lingi” lungo la riva della Drava potrebbe rappresentare un sicuro rifugio contro ogni identità chiusa, refrattaria alla contaminazione. La čarda non c’è più, le acque della Drava sono passate sulle sue fondamenta. Tuttavia, la musica un tempo suonata tra queste mura aleggia ancora nell’aria, immune a qualsiasi cambiamento politico o sociale. Musica fatta di un continuo dare e ricevere dai propri vicini, con la quale si ama facilmente e si uccide a stento; musica di infelici e perdenti i cui brevi momenti di gioia nessuno potrà mai cancellare.

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