Dalla “kolchoz-mafia” al turbo capitalismo.
Durante la cena Olga ci racconta la storia della fattoria. I venti ettari che possiede erano di proprietà dei suoi nonni, ma con l’avvento del socialismo e della collettivizzazione delle campagne è stata trasformata in kolchoz, cosicché dopo l’89 i genitori sono stati costretti a ricomprarla dallo Stato. “Oltre ai 3000 fiorini per ogni ettaro di terreno (oggi il prezzo è salito ad un milione di fiorini, circa 3000 euro, ndr) abbiamo dovuto anche ‘pagare’ i funzionari pubblici, la kolchoz-mafia”. Con la transizione alla democrazia e all’economia di mercato, le cose però non sono migliorate. “Dopo la kolchoz-mafia, oggi abbiamo la mafia del turbo capitalismo di governo. I politici ci hanno dimenticato, di tutte le sovvenzioni che sulla carta dovrebbero arrivare dalla UE non vediamo nulla. Pensate che il nostro governo vende gas alla Francia che poi a sua volta lo rivende alle agenzie privatizzate ungheresi che ce lo forniscono”. Anche per i contadini e gli allevatori come Olga la vita è dura, le grandi catene alimentari uccidono le produzioni locali. I supermercati pagano tardi e solo a merce venduta, così che i contadini – spesso strangolati dai debiti contratti con le banche – non hanno i soldi per piantare il raccolto dell’anno successivo, e finiscono sulla strada. Le cause civili sono inoltre molto lente, anche quando i risarcimenti arrivano la situazione è oramai irrimediabile. Emblematica la storia di alcuni produttori di formaggio di capra della zona, falliti a causa dei ritardi nei pagamenti da parte della multinazionale americana Tesko, proprietaria di catene di supermercati dall’Ungheria alla Bosnia-Erzegovina.
Economia di scambio.
Per questo Olga ha deciso di affidarsi completamente alla vendita diretta, o appoggiandosi al circuito Slow Food. Arrivando sino a veri e propri meccanismi di scambio: “il dentista me lo sono pagata con il mio prosciutto, oramai l’80% delle nostre transazioni avviene attraverso forme di scambio come questa”.
La prima volta a Torino ci è stata nel 2003. Da allora non manca mai un appuntamento a Terra Madre o al Salone del Gusto. Negli anni passati la sua fattoria è stata anche parte di un progetto biennale di “fattorie didattiche” organizzato da Slow Food International: durante il primo anno contadini e allevatori si recavano nelle scuole della zona a presentare i propri prodotti e raccontare ai ragazzi la vita in campagna. Nel secondo invece gli studenti partecipavano a gite scolastiche della durata di due giorni nelle fattorie, durante i quali sperimentavano ritmi e pratiche contadine.
Purtroppo non si è riusciti a dar continuità al progetto, sostenuto per la prima edizione da Slow Food: né le scuole né le municipalità si sono rese disponibili a fornire i fondi necessari per una sua riproducibilità nel tempo. Se le istituzioni sin son dimostrate miopi e disinteressate, non così è stato per circa sessanta famiglie che negli ultimi tempi hanno deciso di trasferirsi qui nella pustza dalle principali città della regione: “scappano da modelli di vita divenuti ormai insostenibili” sentenzia Olga con una punta d’orgoglio.
Il mattino seguente, dopo una colazione a base di marmellata di albicocca e mela cotogna, miele di acacia e prosciutto (affumicato nel forno con legna di gelso), visitiamo orto e fattoria. Sul tavolo Olga ha preparato una piccola selezione dei suoi prodotti che vende abitualmente: marmellate, salvia, sapone di grasso di maiale, miele d’acacia, thé di salvia e menta, salsicce affumicate in forno utilizzando legna di quercia e acacia, prosciutto (venduto tutto per la pasqua secondo la tradizione ungherese), oltre ovviamente alla salsiccia di Mangalica, presidium Slow Food nato per valorizzare questa razza, ma più in generale la tradizionale salsiccia della Puszta ungherese. Accanto ad Olga lavorano altri 11 allevatori e trasformatori riuniti in una cooperativa che ha già ottenuto la certificazione biologica.
Un edificio a base rettangolare dal tetto a canne di bambù (in passato questa era una zona paludosa, bonificata agli inizi del secolo scorso) situato di fronte all’abitazione ospita un museo etnografico messo in piedi da Olga raccogliendo i “tesori” di famiglia: vecchie madie, scansie di legno contenenti utensili di casa e arnesi per il lavoro agricolo provenienti da un passato più o meno remoto offrono al visitatore materiale visivo per entrare in contatto con gli antichi stili di vita della regione.
Dopo aver scoperto che vivo a Sarajevo, Olga mi chiede se “è bella di nuovo”, ci era passata più di trent’anni fa con suo marito durante una vacanza estiva in Jugoslavia. Accomiatandoci, brindiamo così alla Gerusalemme dei Balcani con un ultimo bicchiere di grappa di mela cotogna – il cui colore paglierino è dato dal processo di invecchiamento in botti di legno di gelso – scampata miracolosamente al saccheggio di Karoj. “Pustza man” ci scruta ieratico dall’aia, il rastrello che ha in mano fende l’aria con spostamenti secchi e convulsi. Come a lanciarci un saluto.
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