Fu così che programmai di partire in nave da Ancona per Spalato, e da lì raggiunsi Mostar in corriera. Due giorni dopo mi spostai, sempre in corriera, a Sarajevo, poi fu la volta di Belgrado (undici ore di treno), ultima tappa della prima parte del mio viaggio.
Poi mi spostai in corriera a Ruski Krstur, paese della Vojvodina dove si sarebbe svolto il campo di lavoro (piccole manutenzioni di un parco pubblico) della durata di due settimane.
Infine, sulla via del ritorno, passai da Novi Sad, Zagabria, Laghi di Plitvice e infine da Lubiana.
Ecco un estratto del mio racconto di viaggio: si parla del mio soggiorno a Mostar, prima tappa del mio itinerario.
Erano le due del pomeriggio quando l’autobus con cui ero partito da Spalato arrivava a Mostar. Immediatamente feci una telefonata, peraltro senza successo, ad un affittacamere di cui avevo ricevuto il numero da Viaggiare i Balcani, agenzia trentina di turismo alternativo. Non riuscendoci, chiesi informazioni ad una persona, che immediatamente colse la palla al balzo: chiamò (non mi sarà mai chiaro che cosa sbagliavo) e, spacciandosi per un tassista, mi portò a destinazione al prezzo di cinque euro, cifra ragionevole in Occidente, ma un autentico strozzinaggio per quei posti.
L’affittacamere era particolarmente ospitale: dopo essermi sistemato in camera, mi offrì da mangiare, anche se c’era qualche problema di comunicazione, visto che parlava pochissimo inglese.
Poi uscii in giro per la città: essa si trova in una valle piuttosto stretta, solcata dal fiume Narenta. Il primo posto da visitare era, inutile dirlo, il ponte, ricostruito al posto di quello antico la cui distruzione fu uno degli eventi più significativi della guerra di Bosnia: una zona, chiamata Stari Most, abbastanza turistica, in stile ottomano, come dimostrano anche le numerose moschee nei dintorni. Ma tutta quella zona sembrava essere una città del Medio Oriente. Sui monti a destra del fiume vi era una croce: intenzionato a salirvi, mi portai ai piedi della montagna e chiesi a delle persone fuori da un bar se era possibile: mi spiegarono che bisognava andare dall’altro lato ed era molto lungo arrivarvi, a piedi era assolutamente fuori dalla mia portata. Questo bar era un fan club di una squadra di calcio: e uno degli avventori, che parlava in italiano, mi spiegò che questa era la squadra croata di Mostar, che si contrappone all’altra squadra, quella musulmana. All’interno del bar vi era un poster della nazionale croata, e mi fece capire che loro si sentono croati: mi disse anche che il ponte di Mostar è stato in realtà distrutto dai musulmani per poi attribuire la colpa ai croati: ci credo poco ma non è da escludere, la storia è piena di manipolazione degli eventi. Dunque rinunciai all’escursione in collina, ma quell’incontro mi aveva fatto capire alcune cose. Ora mi trovavo nella parte croata della città, e sembrava un’altra città, di stile molto più europeo.
Passai vicino ad una chiesa dall’enorme campanile in cui stavano celebrando un matrimonio dal quale partì un corteo di macchine: nulla di strano, a parte il fatto che su ogni automobile vi era una bandierina croata. Rimasi ancora un po’ di tempo in quella parte della città, dove in particolare vidi un edificio completamente bombardato, poi attraversai un ponte e ritornai nella parte musulmana: un breve giro per quella zona, poi rientrai in casa. Fra viaggio e visite alle città (compresa Ancona) era dalla mattina del giorno prima che ero in giro (dormendo poco e male sulla nave), quindi crollai abbastanza in fretta.
Per il giorno dopo avevo deciso di fare un giro sulle montagne circostanti: volevo vedere un po’ di panorami. Salii da una via sulla parte musulmana della città, poi proseguii lungo una pietraia, dove vidi anche alcune piccole tartarughe. Poi sbucai in una piana, in gran parte coltivata, con qualche abitazione sparsa: ero nel paese di Podvelez. Davanti a me delle montagne piuttosto alte: il mio obiettivo era a quel punto andare al di là di quelle, volevo arrivare sull’altro versante. Passando davanti ad una di queste case, chiesi informazioni, ma nessuno parlava in inglese. Al secondo tentativo trovai una famiglia la cui figlia parlava inglese, salvo poi scoprire che l’intera famiglia sapeva l’Italiano, perché durante la guerra erano stati in un campo profughi in Sardegna. Mi offrirono un caffé turco, mi parlarono (male) di Berlusconi e poi il padre mi indicò un modo per arrivare dove volevo, ma abbastanza lungo, impossibile in giornata; gli chiesi anche che lavoro faceva, e mi disse che non aveva lavoro: probabilmente avevano un pezzo di terra e di quello vivevano, magari vendendo ciò che avanzava. Prima di lasciare il posto regalai loro il mio cappello: nulla di importante, ma volevo lasciare un ricordo di me, non capita tutti i giorni che un italiano passi in un posto così imboscato. Proseguii lungo la strada, finché vidi una diramazione che saliva verso i 1900 metri del monte Velez: volevo tentare quella via, chissà che magari non sarei riuscito a raggiungere il mio obiettivo. E camminai per diverse ore su una strada carrozzabile, fino ad arrivare in cima: qui vi era uno strapiombo ed era impossibile proseguire, e vi erano dei resti di una postazione militare.
Un po’ deluso tornai indietro dalla stessa strada: quando giunsi sulla via maestra erano le otto: di lì ad un’ora sarebbe stato buio, quindi era impensabile tornare a Mostar per la pietraia. Pertanto mi incamminai lungo la strada cercando di fermare le macchine che (raramente) passavano. Comunque un automobilista mi portò in un piccolo paese, sempre di questo altipiano, in cui c’era anche un piccolo albergo e anche una fermata d’autobus (ma ormai era troppo tardi). Proseguii e fermai una macchina in cui vi era un uomo con una bambina piccola: non mi portò molto lontano, e soprattutto mi diede la drammatica notizia che Mostar distava 25 chilometri (mi indicò la distanza con le dita).Quando mi lasciò non ero molto felice, all’idea di dover percorre a piedi quella distanza, considerando che era tutto il giorno che camminavo. Ma successe un fatto inaspettato: ritornò quell’uomo (senza la bambina) e mi fece capire, a gesti, che pagando mi avrebbe portato a Mostar: pretese quaranta marchi, che sono circa venti euro. Durante il viaggio fu, da parte sua, un continuo parlarmi con io che allargavo le braccia, come per dire che non capivo una parola di ciò che dicesse, e lui scoppiava a ridere. E ne aveva ben ragione: per questa gente, legata ad un’economia quasi di sussistenza, la cifra che mi aveva scucito era un’autentica manna piovuta dal cielo. Dal mio punto di vista era una cifra non proprio trascurabile, ma sempre meglio che farmi una sfacchinata da cui ne avrei risentito anche nei giorni successivi.
E così arrivai alla stanza giusto per appoggiare lo zaino e immediatamente uscii per un ultimo giro per Mostar. Dopo aver mangiato i soliti cevapcici in una bettola andai ancora a Stari Most. Decisi di fotografare le ragazze che passavano (mediamente più belle delle nostre), chiedendo il permesso, che non tutte mi davano, due adolescenti sono addirittura scappate via, non so se per paura di me o perché avessero qualcosa da nascondere: lo facevo sia a scopo documentativo, sia come un modo per attaccare bottone con le persone, e farmi un po’ passare la serata, che sarebbe altrimenti stata noiosa. Tornato a casa la signora mi offrì un piatto di pita, altra pietanza tipicamente slava.
Il mio soggiorno a Mostar volgeva al termine e la mattina dopo sarei partito per Sarajevo, prossima destinazione del mio viaggio.
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