di Leonardo Barattin
Questo articolo è apparso sul sito del nostro partner Meridiano13 (https://www.meridiano13.it/) il 31.10.2024, giusto poco prima dell’annuale Commemorazione dei Defunti.
Per rispetto nei confronti dei defunti e delle loro famiglie, non viene qui indicato il luogo in cui si trova il cimitero. Nel compiere l’analisi che ha portato all’articolo ho cercato di valorizzare l’enorme patrimonio qui presente, che – al di là dell’indole e delle vicende personali di ciascuna delle persone sepolte – ha un grande significato dal punto di vista storico, culturale e umano. Personalmente non posso che ringraziare coloro che mi hanno accolto silenziosamente e benevolmente. Sento che mi hanno offerto aiuto con generosità e affetto nella mia ricerca, consapevoli delle mie buone intenzioni. Che possano tutti riposare in pace ed essere d’ispirazione per i vivi.
Mettiamo alcune stelle nel cielo
Il cimitero qui preso in esame si trova nell’Istria slovena, regione che si estende anche a Italia e Croazia. Una visita a questo sito non è cosa banale e per prepararsi può essere utile la lettura di vari passaggi del libro dell’antropologa Giustina Selvelli, che spiega bene la natura plurale e fluida dell’identità nelle comunità di confine e come in queste aree risulti innaturale un’identità unica, squadrata e monolitica promossa (o imposta) dallo Stato-nazione. Rispetto a tale questione, con la nostra visita a questo cimitero, possiamo affermare di essere “con i piedi nel piatto”.
Ci troviamo infatti in una zona geografica storicamente composita e dai contorni spesso porosi e indefiniti dal punto di vista identitario, per cui si registrano incroci e sovrapposizioni; prestiti culturali e linguistici (e culinari!); rielaborazioni originali che danno vita a personalità plurali, ibride, multicolore. Aspetti, questi, che non dovrebbero sorprenderci nel contesto del continente europeo e ancor meno in aree così fitte di diversità, relazioni e scambi come il bacino mediterraneo, il bacino danubiano e la regione balcanica.
Nonostante un Novecento in cui in diverse ondate e in diversi modi gli Stati-nazione hanno operato omologazioni, lavorato con abbondanza di mezzi per ridurre quanto più possibile (o eliminare) ciò che non era ritenuto “nazionale”, preteso di formare identità personali e di comunità ad una sola dimensione e richiesto professioni di fedeltà assoluta alla loro causa, in queste aree l’ambiente rimane ricco di diversità sul piano culturale, linguistico e religioso, seppur indebolito e sbiadito rispetto ai primi anni del Novecento.
Nel luogo in cui si trova il cimitero esaminato possiamo leggere tutto questo, comprese le pressioni e le distorsioni (o mutilazioni) da parte delle istituzioni italiane e jugoslave che hanno colpito l’identità dei singoli e della comunità locale.
Essa è parte di un’ampia area geografica che dal Friuli alla Carnia sino al Quarnero ha conosciuto nei secoli contatti e incroci, migrazioni e un forte pluralismo e che in larga misura ha vissuto un Novecento complicato e doloroso, che ha cambiato (in molti casi potremmo anche dire, spezzato) le traiettorie di vita dei suoi abitanti, incidendo profondamente sulla loro psiche e nella loro anima: il fronte della Grande guerra e la dissoluzione dell’Impero asburgico multinazionale; l’imporsi dello Stato-nazione fascista e la repressione dei non-Italiani; le violenze diffuse e feroci della Seconda guerra mondiale con l’epilogo dell’Esodo; l’incertezza e l’apprensione determinate dalle amministrazioni alleata e jugoslava nelle Zone A e B tra 1947 e 1954 (1) e la rigida linea di confine tra Italia e Jugoslavia che, nonostante il suo ammorbidirsi nel tempo, ha comunque diviso famiglie, comunità e territori complementari.
In tutto questo si specchia il luogo di cui scriviamo: centro legato per secoli alla Serenissima, poi parte dei domini di Vienna; ricompresa nel Regno d’Italia dopo la Grande guerra, combattuta però con la divisa austriaca; testimone di un esodo massiccio dei suoi abitanti storici, d’impronta istro-veneta, già sul finire del 1953, poco prima di quel Memorandum di Londra dell’ottobre 1954 che la vedono risucchiata nello Stato socialista jugoslavo, fino al suo nuovo destino nella Slovenia indipendente.
Vedo tanti fiori diversi in questo campo
La struttura dell’area cimiteriale è divisa in sezioni che, per comodità, possiamo definire “italiana”, “jugoslava” e “slovena”. Si tratta di una categorizzazione grossolana, utile a fornirci un minimo di orientamento.
L’espressione “Sezione italiana” serve a sottolineare la consistente presenza di sepolture di epoca asburgica e del successivo periodo italiano in cui risaltano la radice istro-veneto-italiana della quasi totalità dei defunti e l’abbraccio con tale cultura (urbana) a partire da un’origine slovena (rurale). È l’area cimiteriale originaria: quella che, pur tra tante “interferenze” successive, fotografa la natura della comunità prima del massiccio esodo. Sarà proprio questo, avvenuto soprattutto negli anni 1953-1956, a sconvolgere la demografia del luogo e del suo territorio circostante, dando vita ad un nuovo capitolo di storia anche sotto il profilo dell’identità.
Partiamo quindi da una robusta base istro-veneta – con una visibile provenienza dalla mezzaluna veneto orientale-friulano-carnica (Sabadin, Bressan, Colomban, …) – a cui si aggiungono famiglie “italiane” di ascendenza slovena (o croata) – come ad esempio quella degli Stipančič. Le pietre tombali in lingua italiana prevalgono in modo nettissimo tra la fine dell’Ottocento e il primo scorcio del Novecento, ma è necessario evidenziare come questa parte del cimitero abbia visto profonde trasformazioni nel corso degli anni che oggi ci consentono di avere solo un’idea della sua struttura originale.
Infatti, all’interno dello stesso perimetro vi sono numerose sepolture degli anni successivi – “jugoslavi” e “sloveni” – che hanno presumibilmente preso il posto di presenze anteriori – “italiane” – e che ci rendono un’immagine molto mossa della questione identitaria.
Nello stesso spazio, sepolti in epoche differenti, troviamo così istro-veneti e italiani (Vascotto, Degrassi, Russignan, Pugliese…), sloveni (Rojc, Blaj, Dolenc…), slovenizzati (Frančeškin, Kaligarič…) e italianizzati (Viti, dall’originario Vitez) in un misto di soluzioni spiazzante, che sembra andare oltre le possibili combinazioni matematiche e la fantasia: cognomi italiani accompagnati da nomi di battesimo sloveni (Slavica Furlan, Franjo Ferluga…); cognomi sloveni combinati con nomi della tradizione onomastica italiana (Marino Mikolavčič, Elio Oblak…), magari slovenizzati nella forma scritta, come nel caso di Lučano Božič.
Oltre a ciò, fino al passaggio di questo territorio allo Stato jugoslavo, compaiono in modo insistente cognomi che sembrano richiamare antiche radici ebraiche: Bologna, Parma, Udine o Dudine, Pesaro; mentre tra i nati di fine Ottocento e inizio Novecento si palesano cognomi di chiara matrice austro-tedesca come Obersnel, Gruber, Lajfert, Hauptman.
Il caso di Aldo Krajcer è uno dei simboli della complessità presente in questo sito: nato in epoca austro-ungarica, porta un cognome tedesco slovenizzato ed un nome di battesimo italiano.
Mamma mia, che confusione!
Nell’affrontare la cosiddetta “Sezione italiana”, a un certo punto si ha la sensazione di girare a vuoto – come si cercasse di avvitare una vite sfilettata – nel voler determinare l’identità nazionale dei defunti.
Per far “chiarezza” dovremmo probabilmente interpellare chi le spiegazioni non può più darcele (sarebbe di grande aiuto!), ma il rischio sarebbe quello di trovarsi di fronte a dichiarazioni che avevo già registrato nel corso della redazione della mia tesi di laurea: in quell’occasione avevo ricevuto molte attestazioni di Istrianità (“Mi son istrian”), ma l’espressione più sublime era stata quella di una signora di una piccola località nei pressi di Buie (Buje) che alla domanda sulla sua identità mi aveva risposto “Mi son de qua”.
Non dobbiamo essere troppo relativisti e pensare che non vi fossero persone in grado di definirsi con precisione, ma dobbiamo comunque tener presente che ci troviamo di fronte ad un mosaico ampio, che ricomprende tutte le sfumature di colore.
Cosa ci risponderebbe il Signor Aldo Krajcer? Scomodando una canzone di una famosa band italiana, potremmo dire che “Grande è la confusione, sopra e sotto il cielo”, ma la realtà non è questa. “Grande è la confusione” se ci ostiniamo a leggere questa sezione del cimitero attraverso categorie nazionali, belle, chiare e lisce.
Se vogliamo incasellare come soldatini in divisa ogni uomo o donna che riposano in questa terra istriana e goderci la vista di un lavoro ben fatto, ordinato e pulito, il rischio è di prendere un grande abbaglio e che il nostro sforzo equivalga a quello di un bimbo che cerchi di incastrare il pezzo di forma quadrata nello spazio di forma rotonda. Possiamo certo pensare a una divisione per categorie nazionali nette, ma temo sia un’illusione pagata a caro prezzo: quello, cioè, di non essere in grado di leggere la realtà identitaria plurale e complessa che caratterizza i nostri cari defunti istriani. “Grande è la confusione” se utilizziamo strumenti inadatti.
Facciamo comunque attenzione
Chiaramente, di fronte a questo mare identitario agitato, questi istriani passati a miglior vita ci dicono a gran voce che no, che non possiamo pretendere di avere solide certezze dalla sola lettura di nomi, cognomi e iscrizioni tombali. Anche quando pensiamo di trovarci di fronte a sepolture che ci suggeriscono identità plurali o mobili, dobbiamo essere prudenti: persino le combinazioni più “ardite”, come quella che abbiamo incontrato poco sopra, possono ingannarci ed è possibile che in vita la persona abbia avvertito un’identità unica (o nettamente prevalente).
È inoltre possibile che le circostanze della vita stessa l’abbiano costretta a operare scelte e automutilazioni, a ricorrere a mimetismi che hanno scavato nella sua persona, trasformandola. Spesso, quindi, possiamo formulare solo ipotesi attente e caute sull’identità dell’uno o dell’altro: a volte più solide, a volte sfumate ed incerte; e tali devono essere considerate. Quelle qui esposte sono comunque piste interpretative ragionate, che pur richiedendo conferme o smentite che in molti casi non potranno mai avvenire, cercano di seguire un percorso attento, critico, senza tesi precostituite.
Giusto per rendere più intricata una questione identitaria già di per sé ostica, piena di sorprese e di insidie, la “Sezione italiana”, con la sua spiccata varietà di sepolture, è testimone dell’intervento delle autorità del Regno d’Italia e della Repubblica di Jugoslavia. Entrambe si muovono con il medesimo intento: quello di italianizzare – la prima – e di slovenizzare – la seconda – nomi e cognomi. Così, a un panorama di già difficile lettura – che si accompagna a “errori nazionali” di trascrizione di nomi e cognomi già sul finire dell’Ottocento – si aggiungono le politiche identitarie messe in atto dalle diverse istituzioni statali. L’intervento delle autorità intorbida le acque, crea nuove identità che non corrispondono al sentire della persona, cambiando nomi e cognomi per rinforzare una parte nazionale e comprimerne (o cancellare) un’altra.
Caso esemplare è quello della tomba che accoglie insieme Maria Ivančič e Albina Giovannini: la prima indicata con la forma slovena e l’altra con quella italiana dello stesso cognome. Ma possiamo citare anche il caso della famiglia Viti-Vitez o quello più sottile della famiglia Palčič (con Jože, Ana e Bruno “sensibili” alle diverse stagioni storiche e politiche); per non parlare poi delle numerose slovenizzazioni avvenute dopo il 1954 (Kodarin, Vižintin, Basaneže, …). Ciò che si legge sulle pietre tombali è in vari casi il frutto di una sovrapposizione, di un’interferenza o di un intervento violento delle istituzioni sull’identità di singoli e famiglie e questo ci deve suggerire molta cautela nell’interpretazione.
Essendo stata impoverita la “Sezione italiana” di numerose tombe istro-veneto-italiane o italianizzate, l’intervento più evidente alla vista e più facilmente in grado di indurci in inganno è quello dell’anagrafe jugoslava. Ma attenzione (ancora una volta!) a gettare la croce addosso alla vecchia Jugoslavia. Un esempio: potremmo ritenere che il nome Amalija sia la slovenizzazione forzata dell’italiano Amalia, ma anche questo non è detto, perché genitori sloveni potrebbero aver avuto una predilezione per l’onomastica italiana, trasposta poi nella forma slovena.
Da notare, infine, che non tutti i nomi e cognomi “italiani” vengono slovenizzati in epoca jugoslava, il che fa pensare che vi fossero dinamiche locali che in alcuni casi permettevano di passare attraverso le forche caudine dell’amministrazione.
In definitiva, con una tale situazione, se vogliamo parlare d’identità nazionale di singoli o famiglie, dovremmo trovare il modo di fare un’onesta chiacchierata proprio con chi riposa in pace non lontano dall’Adriatico azzurro.
Oggi è tutto più semplice?
Lasciando ora da parte la “Sezione jugoslava”, è comunque importante sottolineare come sia questa sia la successiva “Sezione slovena” evidenzino l’arrivo in questa località di molti giovani “per costruire il Socialismo” dopo il passaggio della Zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia nel 1954.
Davvero numerose sono le sepolture “slave” e le date di nascita che si collocano negli anni Venti e Trenta e che ci suggeriscono un arrivo in città nel pieno della gioventù. Qui e nell’altro vicino centro urbano, entrambi svuotati dall’Esodo, sono infatti confluite numerose persone, assorbite via via nel tessuto urbano per riempire i vuoti creati e grazie al proprio sviluppo economico postbellico: uomini e donne provenienti dall’entroterra rurale e da altre parti della Slovenia, ma anche da altre repubbliche jugoslave.
Significativo, poi, l’apporto di persone nate nell’ultimo scorcio degli anni Quaranta e agli inizi degli anni Cinquanta, giunte presumibilmente in città negli anni Sessanta e Settanta. Diviene così fondamentale soffermarsi sulla “Sezione slovena”, che raccoglie gli esiti finali del trascorrere del tempo: molti dei nati negli anni sopra menzionati trovano l’ultimo riposo in questo cimitero soprattutto a partire dagli anni Novanta, quando la Slovenia vive la stagione della sua indipendenza e la loro età avanza. Ancora una volta l’area cimiteriale ci offre un’esplosione identitaria multicolore, meno complessa dal punto di vista interpretativo, ma di grande interesse se si pone l’attenzione sulle caratteristiche della nuova comunità venutasi a formare.
Se è vero che sono più tenui (ma ancora ben visibili!) le tracce della presenza istro-veneto-italiana (Ritoša, Bubola, Zornada, Vižintin, Basaneže, Kodarin, Furlan, Delošto …) è davvero molto marcata e … vivace (!) la presenza di uomini e donne non-Sloveni, giunti negli anni dalle più varie aree della Jugoslavia o della ex-Jugoslavia. Forte è la presenza di ortodossi, che possono abbracciare un’area di provenienza molto vasta, tutta da indagare: Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, solo per citare alcune delle repubbliche chiamate in causa, mentre la forma dei cognomi ci aiuta ad individuare ortodossi originari della Macedonia (Stojanski, Stepanovski, Zafirovski e altri).
È di rilievo il fatto che molti di essi scelgano iscrizioni tombali con il solo alfabeto latino, mentre altri impiegano contemporaneamente sia questo che quello cirillico oppure solo quello cirillico. Su questo aspetto varrebbe la pena soffermarsi. Numerosi sono poi i membri della comunità islamica per i quali sembra di riconoscere provenienze dalla Bosnia-Erzegovina (Omerašević, Ahmić, Zukić…) ed altre di Albanesi del Kosovo o della Macedonia del Nord (Krasniqi). Da non trascurare, poi, la presenza di un ramo austro-tedesco (Kreutzmann, Mencinger, Nusdorfer, Lutman, Weiss, Haupt, Kunst…) che ad una prima analisi pare più legato all’apporto post-1954 dalla Slovenia settentrionale anziché all’eredità del periodo asburgico. Mi fermo, ma non sarebbe finita qui…
Una conclusione provvisoria
I cimiteri costituiscono un patrimonio preziosissimo per leggere l’esistenza di singoli, famiglie e comunità, anche di quelle in vita e non solo di quelle consegnate alla terra. Molte sono infatti le indicazioni che i cari defunti sono in grado di fornire anche sulle dinamiche identitarie del momento attuale.
I cimiteri sono dei veri archivi a cielo aperto, che fungono da bussola “grezza” in assenza di ricerche raffinate condotte in archivio e con il ricorso alle testimonianze orali. Una certa ritrosia nei confronti della nostra ultima dimora ci spinge a girare alla larga da questi luoghi nella vita quotidiana, ma il patrimonio di informazioni che essi ci forniscono è incommensurabile sotto i più diversi punti di vista, non ultimo quello dei gusti, delle scelte estetiche, delle mode, dell’immaginario nel realizzare la sepoltura.
Nel caso qui preso in esame, come di molti altri centri, il camposanto locale costituisce una mappa storica articolata della comunità, da leggere e decifrare con attenzione, pazienza e (molta) prudenza. Si tratta di un vero gioiello, da studiare in maniera approfondita e da valorizzare, perché è la prova di un’enorme ricchezza culturale e umana che viene spesso offuscata o celata nella città dei vivi. I morti parlano, insomma. E ci dicono cose davvero interessanti!
(1) Dal 1947 al 1954 il territorio che ruota attorno a Trieste e comprende anche l’Istria settentrionale viene amministrato da autorità angloamericane (Zona A) e jugoslave (Zona B) ed assume la denominazione di Territorio Libero di Trieste (T.L.T.)
Laureato in Storia all’Università di Venezia e da sempre appassionato dell’Europa centro-orientale e balcanica. È presidente dell’associazione Viaggiare i Balcani, che idea e realizza itinerari culturali per studenti e per adulti.