Il terzo giorno è dedicato esclusivamente al lungo viaggio che ci porta da Prijedor fino a Sarajevo, ma che si rileva comunque occasione per attraversare altri luoghi simbolo delle memorie divise e della loro risemantizzazione.
In particolare il passaggio da Jajce: mentre dal pullman lo storico Stefano Bartolini dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia ci racconta l’importanza simbolica che questo luogo ricopre per le vicende della Resistenza partigiana jugoslava e per le importanti decisioni prese qui dall’AVNOJ nel novembre del ’43 sulla formazione di uno stato jugoslavo federale, le bandiere croate e gli striscioni che sventolano dall’antica fortezza ricordano un’altra liberazione, quella del 13 settembre del ’95 quando le forze croato-bosniache liberarono la città dall’esercito serbo-bosniaco. Il nostro passaggio, proprio il 13 settembre è puramente casuale, ma ci offre l’opportunità di cogliere nuovamente questo divario tra uno dei simboli di unità e fratellanza (della II g.m.) e uno dei simboli delle divisioni che ancora oggi regolano le memorie e le commemorazioni locali.
Il soggiorno a Sarajevo prevede due importanti visite: un incontro al Centro di Ricerca e Documentazione e una visita al Museo Storico della Bosnia Erzegovina.
Il primo incontro ci permette di introdurre e suggerire, dopo i numerosi esempi di memorie divise e narrazioni diverse, una sorta di via d’uscita da questo vortice di strumentalizzazioni e scontri di memorie, grazie alla presentazione del lavoro pluriennale del centro di ricerca. Dopo aver realizzato un vero e proprio archivio con i dati e le storie di tutte le vittime della guerra di Bosnia Erzegovina dal ’92 al ’95, il centro sta realizzando un nuovo progetto di divulgazione e conoscenza per la società civile: un atlante multimediale online dei crimini di guerra.
Come ci spiega Senada Gugic, il tentativo è quello di creare uno strumento che sia disponibile a chiunque direttamente da internet e
così sostenere un processo di diffusione e condivisione del materiale raccolto. L’atlante è naturalmente soltanto l’ultimo progetto che vede impegnata questa organizzazione nella ricerca di una verità fattuale e statistica che possa costituire la base per evitare le strumentalizzazioni e fornire agli storici e agli studiosi dati certi e documentati su cui costruire le future narrazioni storiche. Si tratta di un argomento che ci tornerà utile quando visiteremo due giorni dopo i due siti memoriali di
Jasenovac e Donja Gradina, emblema della strumentalizzazione del numero delle vittime del campo di concentramento omonimo.
La seconda visita, prima di lasciare il tempo per girovagare nella Baščaršija e nel centro storico per scoprire liberamente il fascino della città, è dedicata al Museo Storico della Bosnia Erzegovina, ex Museo della Rivoluzione. Al suo interno incontriamo la curatrice Elma Hasimbegovic che ci illustra le mostre permanenti e temporanee, oltre a spiegarci le difficoltà economiche in cui versa il museo.
Le scelte operate da questo museo storico rilevano ancora una volta come gli ultimi anni abbiano profondamente cambiato le prospettive storiche di questo paese. L’esposizione principale presenta la storia della Bosnia Erzegovina dal medioevo ad oggi, con una parte altrettanto esclusivamente dedicata all’assedio di Sarajevo.
La curatrice ci indica quest’ ultima come la parte più interessante ed
importante del museo, ma ci spiega velocemente anche la storia del museo. Prima della guerra i locali ospitavano una mostra permanente esclusivamente dedicata alla II guerra mondiale alla Resistenza partigiana. “La sua missione era quella di conservare e promuovere la memoria della II g. m. e all’epoca era molto famoso”. Questa parte è stata completamente rimossa quando è iniziata la guerra, e oggi significativamente sostituita con i nuovi miti fondativi, dalla storia medievale all’assedio, momento probabilmente tra i più simbolici e significativi per l’identità cittadina.
Fuori dal Museo, d’altronde, proprio il bar inserito nello stabile si chiama Caffè Tito e ogni anno, come si capisce dai manifesti ancora appesi su cui è scritto “Siamo tutti con Tito”, si festeggia ancora il 25 maggio, compleanno di Tito e giorno della gioventù della defunta Jugoslavia. Il locale sembra aver sostituito il museo vista la quantità di cimeli originali del periodo jugoslavo riguardanti la figura di Tito.
Questa immagine ci dice molto sui sentimenti che ancora la gente prova per quel periodo e sulla diversa linea ufficiale del museo.
L’ultima tappa del viaggio si svolge nel luogo cardine e simbolo delle memorie divise, ovvero al sito memoriale di Donja Gradina, in Bosnia Erzegovina e al sito memoriale e al museo di Jasenovac, in Croazia.
Memorial Zone Donja Gradina (www.jusp-donjagradina.org)
Entrambi gli enti conservano la memoria del campo di concentramento ustascia di Jasenovac esistito dal 1941 al 1945. La sola esistenza di due enti a così poca distanza ci indica quanto forte sia ancora il divario
tra le due narrazioni e le due memorie della stessa vicenda. A Donja Gradina lo storico Dean Motl ci accompagna lungo la suggestiva passeggiata immersa tra gli alberi nei luoghi destinati ai massacri
dei prigionieri e alla creazione di fosse comuni (ne sono state rinvenute oltre 100, tra cui 5 esclusivamente di bambini).
Il numero di vittime del campo rappresenta il terreno di scontro che fin dal dopoguerra vede dividersi in maniera sempre più aggressiva le storiografie nazionali. Lo si comprende bene quando arriviamo nel luogo simbolo di Donja Gradina rappresentato da grandi cartelloni su cui appaiono le cifre delle vittime: 700.000 vittime del campo di concentramento di Jasenovac, di cui 500.000 serbi, 40.000 rom, 33.000 ebrei, 20.000 bambini e 127.000 antifascisti. Tale cifra, ci spiega Motl, è il risultato di una Commissione degli anni ’60. Su queste cifre però non è stata fatta alcuna ulteriore indagine e l’ente museale di Donja Gradina non sembra volerne avviare alcuna per il momento.
L’impressione che ne traiamo è che invece si preferisca conservare e amplificare esclusivamente il valore evocativo e simbolico di questa cifra.
Tale contabilità d’altronde cozza in maniera violenta con le cifre che ci vengono fornite dal Museo di Jasenovac dall’altra parte della riva del fiume Sava in territorio croato. L’approccio del Museo di Jasenovac è infatti profondamente diverso. Chiediamo al nostro accompagnatore, lo storico Ivo Pejakovic, oltre alle notizie riguardanti il monumento e la storia del campo, di entrare nel merito della questione numerica.
Memorial of Bogdan Bogdanović (Flickr / Brenda Annerl)
Il museo di Jasenovac, ci spiega Pejakovic, è anche un centro di ricerca
che sta faticosamente cercando di restituire ad ogni vittima la propria identità, come dimostrano i pannelli con i nomi di ogni vittima appesi al soffitto. Una ricerca attualmente ancora in itinere che rimane sempre aperta. La cifra delle vittime documentate è giunta fino ad oggi a circa 83.000. La domanda posta da uno dei partecipanti è quindi se oltre al numero documentato, il centro non cerchi di fare una stima delle vittime, visto che sarà difficile ad così ampia distanza poter identificare tutte
le vittime singolarmente. Pejakovic concorda naturalmente sulla necessità di conciliare la documentazione sulle singole vittime anche con le stime statistiche, ma qualcuno fa notare che ciò nonostante non ne esiste traccia all’interno del museo.
Sia Motl che Pejakovic ci ricordano che non sapremo mai qual è il numero esatto delle vittime. Il sospetto è che dietro a questa affermazione si nascondano ancora e troppo spesso le due parti, permettendo loro di continuare a fronteggiarsi in una vera e propria guerra, cinica e drammatica, di numeri. Se queste rimangono quindi a tutt’oggi le cifre di riferimento ufficiali (83.000 e 700.000) su cui si vorrebbe costruire un dialogo e un confronto, si capisce bene come la questione delle
memorie divise rimanga più che mai aperta e drammaticamente lontana dall’essere seriamente affrontata. Ciò nonostante, seppur stretti, esistono margini di speranza.
Nonostante che i due enti non abbiano alcun tipo di collaborazione ufficiale, sia da una parte che dall’altra ci confermano i due ricercatori, esistono i rapporti informali soprattutto tra i singoli storici e studiosi più aperti. Ci svelano addirittura di un progetto di ricerca elaborato e portato avanti a titolo privato da due ricercatori dei due enti. Un progetto sui giorni delle liberazione del campo, avvenuta grazie ad una sollevazione interna e non grazie all’arrivo dei partigiani. Uno dei due si spinge fino a dichiarare: “è assurdo che esistano due enti museali separati. Sarebbe bello se vi fossero le condizioni per realizzare un unico museo congiunto e poter finalmente lavorare insieme”. Purtroppo la realtà attuale non sembra potergli dare grandi speranze.